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Morbo di Crohn: i primi segnali, l’aiuto che non c’è

 |  Redazione Sconfini

Una diagnosi tempestiva e certa e una terapia appropriata: queste le attese legittime e irrinunciabili del paziente che si rivolge a una struttura sanitaria di riferimento e ai suoi operatori per un episodio acuto, con sintomi addominali e quadro clinico severo. Una giovane ragazza ventottenne che da quasi un anno convive con una diagnosi di malattia di Crohn, racconta la propria storia con severo disincanto verso l’approccio medico-paziente, senza astio, né sete di vendetta, sostenuta dalla consapevolezza che la sua vicenda emblematica sia grave, inquietante, inaccettabile e che non deve ripetersi sulla pelle di altri malati. Questo è il solo motivo che ha spinto Elisabetta a farci conoscere la sua storia. Si fa testimone della sua personale vicenda che non si può liquidare come classico episodio di malasanità: le strutture non erano fatiscenti, il personale assente, i laboratori inagibili.


“Un giorno – racconta Elisabetta – mi sono presentata al Pronto soccorso di Cattinara, a Trieste, con dolori addominali acutissimi e crampiformi, che seguivano a un periodo di malessere generale, nausea, inappetenza associata a ricorrenti episodi di diarrea, vomito ed evidente dimagrimento. Ero stremata, febbricitante: chiedevo semplicemente di saperealt cosa mi stava succedendo, volevo sapere – e con me i miei familiari – l’origine, la natura del mio malessere e di essere adeguatamente curata. Ho vissuto il dolore fisico ed emotivo (non meno acuto, certamente più condizionante) dell’impotenza, della fragilità del paziente inerme, in balia di medici inconsapevoli della mia ansia e poco attenti verso il mio malessere. Nessuno di loro ha dimostrato interesse verso me paziente, delicatezza o comprensione verso la mia sofferenza, cercando di comunicare con me con chiarezza guardandomi in viso, negli occhi”.


“Qualcuno – continua Elisabetta – dopo aver escluso “appendicite acuta”, ha sussurrato “morbo di Crohn” perché ricordo con precisione lo sgomento di mia madre, infermiera, ma nessuno mi ha informata, preparata ad apprendere di essere affetta da una malattia cronica, con conforto e speranza. Sono poi stata inviata in Clinica Chirurgica, sottoposta ad anonime e innumerevoli visite addominali di medici specialisti e specializzandi, alimentata con flebo e oggetto di ironiche allusioni alla mia possibile nevrosi. Le analisi di laboratorio sono state completamente ignorate eppure erano inequivocabili anche per i profani: alcuni parametri, come l’indice linfocitario e la proteina C reattiva “alle stelle”, avrebbero dovuto far scattare in qualche medico il campanello d’allarme per indirizzare alla diagnosi, o quanto meno a non rassegnarsi all’inammissibile dimissione con “diagnosi incerta da definire”. Sono stata dimessa dopo 36 ore di digiuno e flebo, esortata a mangiare e ad attendere la chiamata per ulteriori esami utili a definire la diagnosi”.


“Pochi giorni – riprende Elisabetta – e la mia situazione era più grave di prima: febbre, dolori lancinanti, nausea, vomito e innumerevoli scariche diarroiche. La mia risolutezza a non tornare in ospedale, a rivivere quella ostilità da parte dei medici e l’aggravarsi del mio quadro generale hanno indotto mia madre a chiamare telefonicamente a caso per avere il parere di un gastroenterologo. La fortunata casualità mi ha condotto dal professor Mario Frezza: finalmente qualcuno che con fare accogliente e con competenza considerava il mio caso, predisponeva l’esame RX del tenue, stabiliva la diagnosi di malattia di Crohn, la sua estensione e la terapia combinata per la fase acuta. Iniziava così una nuova fase della mia vita: faticosamente ho dovuto maturare la dolorosa consapevolezza di dover convivere con una patologia cronica, di sentirmi espropriata del dominio sulla mia autodeterminazione. Per molto tempo prima di elaborare una nuova prospettiva di vita, pensavo alle scelte future solo come rinunce, vivevo e mi interrogavo sul perché dell’ingiustificato male. Poi il successo della terapia farmacologica e della presa in carico da parte del mio medico, l’affetto delle persone vere e importanti, la ridefinizione delle priorità nella mia vita sono stati i modulatori del decorso positivo, ma anche cofattori della mia “risalita”, lenta ma continua”.


“Oggi – conclude Elisabetta – sono più concreta, ma pure disposta a concedermi lo spazio e il tempo per interpretare i segnali che il mio corpo mi manda, dosare le forze, lasciare che sguardo e pensieri vaghino sui tetti. Oggi ho ritrovato la serenità e l’equilibrio per le scelte condivise nella mia vita privata e per il lavoro. Sono una persona nuova che ha scoperto la vera solidarietà, la condivisione e l’autoaiuto con l’associazione A.M.I.C.I. che senza alcuna intrusione informa e sostiene i pazienti delle malattie croniche dell’intestino. Ho superato la rabbia e l’angoscia, e aspetto… con distacco che mi chiamino dopo quasi un anno per accertamenti”. Ma qualcuno la chiamerà?

I.Z.

 


In collaborazione con Help!

 


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