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Dipendenza da sostanze psicoattive: non è solo questione di cervello

 |  Redazione Sconfini

Sono principalmente due i modelli che per almeno due secoli si sono contrapposti nella cura della dipendenza dalle sostanze stupefacenti o, per meglio dire, psicoattive.

Psicoattive in quanto non stiamo parlando solo di quanto viene tradizionalmente raggruppato sotto il nome di droghe, ma anche di alcool, di tabacco e di psicofarmaci.
“In linea generale – afferma Stefano Canali, ricercatore al Laboratorio interdisciplinare di Scienze naturali e umanistiche della Scuola internazionale di studi superiori avanzati (Sissa) di Trieste – si può dire che fino al ’900 vigeva il modello morale, dove la dipendenza veniva interpretata come vizio imputabile a persone di debole volontà. Dal ’900 in poi, invece, è prevalso il modello biomedico, dove la dipendenza è stata indicata come patologia del sistema nervoso e la perdita di controllo e volontà una sua conseguenza”. La percezione del fenomeno, insomma, varia a seconda della cultura del periodo storico. E se il primo modello non prevede come cura il ricorso a farmaci (che avviene invece nel secondo), bensì un intervento psicologico (come l’inserimento del paziente in comunità di recupero o nei gruppi di autoaiuto), “è anche vero – osserva Canali, autore e principale relatore di “Psicoattivo”, esposizione multimediale per la prevenzione del consumo di sostanze psicoattive allestita a febbraio alla Stazione Rogers di Trieste – che la corrente morale porta con sé il rischio di essere aperta a istanze di tipo ideologico: quello delle dipendenze è infatti tema di propaganda elettorale per molti politici”.
Oggi il livello biomedico sembra prevalere in base alla generale tendenza di affidare alla scienza tutte le risposte. Eppure l’esclusivo intervento farmacologico può rivelarsi fortemente limitativo per curare una patologia legata a un organo complesso come il cervello. Il cervello non è infatti solo l’organo primario dell’adattamento, e quindi il luogo dove le informazioni provenienti dai sensi vengono elaborate e integrate con quelle provenienti dai diversi tessuti dell’organismo per produrre la risposta comportamentale più adatta alle necessità del corpo e alla situazione ambientale. Struttura e funzioni del cervello sono pure il prodotto della singolare interazione del patrimonio genetico, dell’ambiente, delle esperienze individuali e del contesto sociale all’interno del quale l’individuo nasce e cresce. “Questo è il motivo – rileva Canali – per il quale, secondo alcuni studi, la dipendenza inizia a partire dalla famiglia, primo modello con il quale l’individuo si raffronta subendone l’influenza dei comportamenti”. Ecco perché, secondo il ricercatore, “in una famiglia dove il padre è dedito a bere non sarà difficile che il figlio non segua l’esempio”.
Ma cos’è dunque la dipendenza? La dipendenza è quella malattia che interviene quando la sostanza psicoattiva si impadronisce dei sistemi funzionali del cervello. Ogni sostanza ha infatti per “bersaglio” un neurotrasmettitore specifico la cui funzione viene alterata: l’ecstasy, ad esempio, interviene sulla serotonina (da cui l’aumento di energia ed euforia), la nicotina sull’acetilcolina (elevando l’attenzione e i processi cognitivi), il principio attivo della cannabis (Thc) agisce invece sui recettori presenti in particolar modo sulla corteccia frontale del cervello (funzioni cognitive). Tutte le sostanze intervengono infine sulla dopamina, neurotrasmettitore necessario alla sopravvivenza dell’individuo in quanto ne regola i comportamenti adattativi. “L’intervento delle sostanze psicoattive sulla dopamina – spiega il ricercatore della Sissa – consiste in un’azione sulla capacità cognitiva attraverso il lancio di falsi segnali e la creazione di una falsa memoria che associa l’assunzione di una determinata sostanza in un determinato contesto a una sensazione di piacere che, di conseguenza, l’organismo continuerà a cercare una volta finito l’effetto, fino a diventarne completamente dipendente”. In questo caso, secondo il modello biomedico, la difficoltà di uscire dal problema è dunque legata al fatto che la volontà della persona viene compromessa dalla dopamina.
Esistono pur altre circostanze, tuttavia, che rendono l’individuo fragile e vulnerabile. Recentemente è stato infatti dimostrato come la dipendenza sia legata anche ai geni. La dipendenza genetica non indica l’esistenza di “geni della dipendenza”, bensì la modificazione della funzione dei geni delle cellule nervose in base ad esperienze, stimoli o all’assunzione di sostanze psicoattive che a lungo termine possono finire con l’alterare le normali funzioni di neurotrasmissione e gli stati psicologici (emozioni e processi cognitivi) che da esse dipendono. Ciò renderebbe dunque il soggetto più vulnerabile alla dipendenza, ma non per questo privo della forza di volontà necessaria per resistere alla “tentazione”. Da qui, e considerato il fatto che esistono invece dei geni che producono la sensazione di piacere, è possibile affermare che ci sono più livelli in base ai quali la persona può essere geneticamente predisposta alla dipendenza: il bambino durante il periodo di gravidanza (se la madre assume determinate sostanze durante la gravidanza il bambino nasce con la sindrome di astinenza); le persone alla costante ricerca del brivido estremo (per godere del piacere prodotto dall’andare “oltre il limite” queste persone hanno meno difficoltà ad approcciarsi alle droghe); la dipendenza da stress (chi vive cronicamente ad alto regime di stress, provata la prima volta una determinata sostanza continua ad assumerla per compensare il livello di stress).
Nei tre esempi sopraccitati si parla di tre categorie di persone che hanno facilità a diventare dipendenti, ma non è detto che accada, soprattutto nel caso non si trovino di fronte a stimoli che le inducano a diventarlo. Non è detto poi che la dipendenza sia immediata conseguenza dell’assunzione di una sostanza psicoattiva, come non è detto che la dipendenza sia una malattia irreversibile. Va però detto che l’approccio biomedico attraverso la somministrazione di farmaci comporta dei rischi di tipo morale e politico. Il rischio morale concerne il fatto che il soggetto venga indotto a nascondersi dietro la malattia, abbandonando la volontà e rifiutando di assumersi le proprie responsabilità. Il rischio politico, invece, sopraggiunge qualora lo Stato imponga la cura in modo assoluto sottovalutando le cause sociali o i fattori economici che possono aver influenzato il soggetto a finire nel braccio della dipendenza. “Per uscire dalla dipendenza – conclude Canali – non sono necessari solo i farmaci, ma la combinazione di questi con l’intervento su altri fattori quali il contesto storico e sociale che sta vivendo l’individuo, la sua volontà, le motivazioni e le sue relazioni umane”. Per uscire dal tunnel, dunque, non esiste una risposta univoca per tutti, bensì una formula da costruire su misura per ciascuna persona, agendo contemporaneamente sia dal punto di vista morale che farmacologico, valutando caso per caso.

foto: Simone Van Der Koelen


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