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Italia, nostra terra di rapina

 |  Redazione Sconfini

 

Il sistema politico è lo specchio della società. Sarà una banalità ma non c’è scampo: nessun regime dura più di tanto senza un radicamento, un’effettiva legittimazione nel Paese che esso rappresenta e amministra. Non è necessario il consenso, basta la legittimazione. Una certa rispondenza nella mentalità, nel costume. La capacità di esprimere caratteristiche psicologiche e antropologiche, prima che politiche, della collettività.

 

Prendiamo l’Italia. I governi che si succedono da almeno trent’anni bruciano il loro patrimonio di consenso nel giro di pochi mesi, nel caso non scontato in cui ne possano vantare uno. Per il resto, con più o meno fortuna a seconda delle circostanze, tirano a campare. Il sistema politico in generale, da almeno trent’anni, è screditato agli occhi dell’opinione pubblica, è considerato inefficiente e corrotto. C’è stato tuttavia un momento, nei primi anni Novanta, in cui sembrava realistica la possibilità di fare piazza pulita e segnare una cesura. Ma è stata un’occasione mancata. Perché?

 

È presto detto. La politica italiana, pur essendo tragicamente priva di consenso, godeva nonostante ciò di un’ampia legittimazione sociale. Le inchieste di Mani pulite avevano dimostrato che il reticolo di corruzione nel Paese si estendeva, come in una piramide, dal vertice alla base senza soluzioni di continuità. L’illegalità era presente ovunque. Dai piani alti della politica ai gradini più bassi dell’attività economica, ciò che mutava era la quantità di denaro sporco mobilitato ma non la sostanza dei reati. Quando gli avvisi di garanzia hanno cominciato a colpire non più soltanto gli alti dirigenti di partito ma anche i quadri inferiori delle aziende e i piccoli imprenditori, attorno ai magistrati è stata fatta terra bruciata e il processo di rinnovamento, ancora prima di iniziare, si è impantanato.

 

Ecco perché in Italia nessun cambiamento profondo è possibile e ogni tentativo riformatore si spegne dopo i primi sussulti. All’ondata giustizialista segue sempre la risacca della complicità. La classe dirigente non può essere spazzata via semplicemente perché la società non offre materiale di ricambio in misura sufficiente. Una situazione disperata.

 

Ieri come oggi, insomma, politica e società nel nostro Paese si riflettono in un gioco di rimandi spesso lugubre e omertoso. Tentiamo qualche esempio. Il provincialismo, l’inadeguatezza del sistema politico nel rispondere alle esigenze della competizione globale ha riscontro, anzi è figlia dell’arretratezza della società italiana nei comparti della produzione e della conoscenza. D’altra parte, la frammentazione degli schieramenti politici in decine di partiti in polemica fra loro è la riprova della crisi di identità della nazione nel suo complesso, frantumata in una miriade di orientamenti e interessi in conflitto, svuotata di una visione di sé coerente e unificante, senza un’idea della propria missione in Europa e nel mondo.

 

La realtà desolante nella quale si è finiti impone un ripensamento sull’esperienza repubblicana degli ultimi sessant’anni. L’ombrello atlantico della guerra fredda ha garantito al Paese una quota forse immeritata di benessere, immeritata rispetto alla prova effettiva che hanno dato di se stesse le forze politiche consociate al potere in quel lasso di tempo. Il nostro era un Paese a sovranità limitata, la cui stabilità era assicurata dall’equilibrio internazionale. Venuto meno quell’equilibrio dopo il 1989, l’Italia ha dovuto fare da sé. È stato allora che il livello della classe dirigente è giunto senza equivoci allo scoperto. I nodi accumulati per decenni erano saliti al pettine, d’improvviso.

 

Realisticamente, c’è da concludere che l’aggancio provvidenziale all’Unione Europea è il punteruolo grazie al quale resistiamo come soggetto nazionale: per il certo rigorismo economico ed etico che tiene a freno una slavina sotto la quale, altrimenti, giaceremmo sepolti da un pezzo.

 

Già così i capitali stranieri scendono a frotte, fanno man bassa di porzioni cruciali del nostro apparato finanziario e produttivo. Il problema non è difendere la bandiera, la cosiddetta italianità considerata valore in sé. Si tratta invece di tutelare le risorse in grado di stimolare la ricerca tecnologica e il dinamismo produttivo di un Paese. L’alternativa è perdere la capacità di contare qualcosa sul mercato internazionale in termini di autonomia nazionale. Cioè, per noi, ridiventare terra di rapina.

 

Guido Rossi, a proposito della messa in vendita di Telecom, ha dichiarato che lo scenario italiano ricorda la Chicago degli anni Venti: assenza totale di regole, possibilità di affermazione lasciata ai gruppi di potere più agguerriti e spregiudicati. Ma per il suo paragone, Rossi avrebbe potuto attingere a situazioni meno esotiche. E risalire alla preistoria dell’Italia unita, per esempio, quella del Quattro e Cinquecento. Quando non eravamo che un’espressione geografica. Senza un’idea della nostra missione in Europa e nel mondo.

Patrick Karlsen

 

 

 

 

 

 


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