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Malsanità e medicina difensiva

 |  Redazione Sconfini

Malasanità è un vocabolo che fa audience: già dal suono lascia intendere che si affronterà un argomento negativo, magari con qualche morto, magari con qualche scandalo, temi che sempre attraggono la massa dei lettori e degli spettatori.

Abbiamo già scritto come “malasanità” sia un neologismo d’invenzione giornalistica, coniato per intendere qualsiasi cosa non funzioni nel mondo della sanità lato sensu intesa. Sotto questo titolo, infatti, possiamo sentir parlare degli argomenti più disparati: dal malfunzionamento delle strutture pubbliche, che costringono i pazienti a code esasperanti nei Pronto soccorso o ad esagerate attese per potersi sottoporre ad esami clinici importanti, agli sprechi di denaro pubblico nella costruzione di nuove strutture o nell’acquisto di costosissimi macchinari che non entrano mai in funzione, dagli abusi edilizi nell’edificazione di strutture sanitarie, pubbliche o private, ai danni derivati ai pazienti da errori professionali in ambito sanitario o dal malfunzionamento di ospedali o cliniche.
L’aspetto più eclatante del fenomeno malasanità è certamente quest’ultimo perché vede leso uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano, costituzionalmente tutelato dal nostro ordinamento giuridico come da ogni ordinamento moderno e liberale: il diritto alla salute, diretta emanazione del diritto alla vita. Recita così l’art. 32 della nostra Carta fondamentale: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Interessante notare come il diritto alla salute venga enunciato quale diritto dell’individuo e, allo stesso tempo, interesse della comunità. Ci rammenta la Costituzione come sia interesse dell’intera comunità che venga tutelata la salute di ciascuno dei suoi membri poiché, con ragionamento a contrario, provoca danni all’intera comunità la malattia, lo stare male anche di un solo cittadino.
Certo nelle nostre comunità l’importanza del singolo può essere minore d’un tempo, quando veramente l’unione faceva la forza e il gruppo aveva bisogno della salute di tutti i suoi componenti per affermarsi sugli altri o per difendersi dagli altri. Ma anche al giorno d’oggi, banalmente, la spesa sanitaria è sostenuta dalla collettività ed è quindi interesse di tutti che il denaro pubblico non venga sperperato ma sia utilizzato al meglio su tutto il territorio nazionale. Ancora, la prescrizione di esami superflui, oltre ad essere uno spreco di risorse, grava sulla comunità anche perché contribuisce ad allungare le liste d’attesa a danno delle persone che di quegli esami hanno reale necessità ed urgenza.
A questo proposito va segnalato un fenomeno in preoccupante aumento negli ultimi anni: quello della cosiddetta medicina difensiva, dovuto al notevole incremento delle controversie legali avviate da pazienti o da loro familiari contro medici e strutture sanitarie. Per medicina difensiva s’intende l’insieme delle decisioni che dai sanitari vengono prese, a volte anche inconsapevolmente, non solo e non tanto nell’interesse del paziente quanto piuttosto nell’intento di evitare un’accusa di malpractice nei propri confronti o nei confronti della struttura alla quale appartengono. La medicina difensiva si può esplicare sia in modo attivo, con la prescrizione al paziente di esami e terapie non necessarie, ancorché non dannose, al solo scopo di mettersi al riparo da possibili accuse di negligenza, imprudenza o imperizia, sia in modo passivo, col rifiuto di praticare o la scelta di non praticare procedure diagnostiche o terapeutiche ritenute ad alto rischio, se non addirittura col rifiuto di trattare pazienti già compromessi.
Lo sviluppo di questa poco ortodossa prassi è stato tale da catturare l’attenzione del Centro studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale (Csgp), istituito presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e diretto dal prof. Gabrio Forti, che nel dicembre 2008 ha pubblicato uno studio dal titolo: “Il problema della medicina difensiva: una proposta di riforma”. Dopo avere analizzato il fenomeno in Italia, a partire dai “soliti noti”, cioè i dati forniti nel 2007 da Ania (Associazione nazionale tra le imprese assicuratrici), che informavano come in dieci anni, dal 1995 al 2005, le richieste di risarcimenti contro i medici e contro le strutture sanitarie avessero subito un incremento del 65%, passando da poco più di 17.000 a circa 28.500, e lo studio condotto nel 2004 dal Cineas (Consorzio universitario per l’ingegneria nelle assicurazioni del Politecnico di Milano), il quale stimava il numero dei decessi in ospedale per errori sanitari tra i 14.000 e i 50.000 l’anno, con un costo di 260 milioni di euro per le strutture ospedaliere, il Csgp è passato ad esaminare l’approccio all’errore rilevando come (anche) nel nostro Paese quando si verifichi un errore di rilievo all’interno di un’organizzazione, quale ad esempio un ospedale, si adotti di regola un approccio accusatorio. Come cioè si tenda a dare il via ad un procedimento – sia questo una richiesta di risarcimento danni stragiudiziale, o un’azione giudiziaria, civile o penale, oppure un procedimento disciplinare – volto all’individuazione del responsabile, della persona fisica colpevole dell’errore per sanzionarla, tralasciando invece la ricerca dei punti critici nel contesto organizzativo. Così facendo non si eliminano le cause dell’errore, che può ripetersi anche con diversi protagonisti, e non si ottengono miglioramenti nell’organizzazione della struttura sanitaria che possano evitare il verificarsi di altri incidenti.
La ricerca di un capro espiatorio, insomma, fa comodo a molti ma genera di norma effetti perversi che si ripercuotono sulla collettività. Lavorare sotto la spada di Damocle d’una controversia legale genera un clima di tensione e paura a causa del quale gli operatori sanitari assumono la tendenza a nascondere gli errori, propri o dei colleghi, e ad adottare decisioni di medicina difensiva. Altro fattore determinante è la preoccupazione di perdere la reputazione, che si verifica quando l’errore, che è per definizione involontario e imprevedibile, viene generalmente considerato segno d’incapacità professionale tout court, non valutando altri elementi che possono contribuire pesantemente alla sua produzione, quali carenze strutturali (mancanza di macchinari adeguati o personale insufficiente) od organizzative (difetto di comunicazione tra i diversi reparti o tra i diversi sanitari che si alternano nelle cure ai pazienti) dell’ospedale.
Lo studio del Csgp evidenzia come la situazione italiana sia assolutamente simile a quella che si verifica in altri Paesi quali, ad esempio, Stati Uniti, Giappone e Regno Unito, in cui il timore d’essere citati in giudizio e il “disonore” che l’essere additati quali responsabili dell’errore comporta, inducono larga parte dei medici ad adottare scelte di medicina difensiva, con un sensibile aumento dei costi della sanità e una contemporanea riduzione della qualità dell’assistenza sanitaria fornita ai pazienti.
Esaminando poi le modalità in cui più frequentemente si esplica la medicina difensiva, lo studio riporta i seguenti esempi: l’inserimento in cartella clinica di annotazioni evitabili, la proposta di ricovero in ospedale di un paziente trattabile ambulatorialmente, la prescrizione di un numero maggiore di esami diagnostici rispetto a quello necessario, la consultazione non necessaria di altri specialisti, la prescrizione di farmaci non necessari. Mentre le pratiche di medicina difensiva attiva sono talmente diffuse da essere considerate quasi una normale abitudine di lavoro, fortunatamente (si fa per dire) quelle di medicina difensiva negativa sembrano essere abbastanza ridotte, se solo il 26% degli intervistati ammette di avervi fatto ricorso motivando con il timore dell’insuccesso e della conseguente, quasi inevitabile, lite processuale il rifiuto d’intervenire chirurgicamente nei casi ad alto rischio di conseguenze negative e complicanze.
Un approccio diverso all’errore, non sanzionatorio ma costruttivo e un minore ricorso alle aule dei tribunali, in modo particolare quelle penali, sono i suggerimenti che concludono la ricerca del Csgp, ai quali va aggiunta la necessità di una migliore comunicazione tra sanitari e strutture sanitarie da un lato, pazienti e loro familiari dall’altro. Senza dimenticare che, per giungere a soluzioni condivise del problema, è necessario uno sforzo di comprensione delle esigenze dell’altro e che, magari, per andare avanti può essere necessario fare prima un (piccolo) passo indietro.

foto: Pina Messina


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