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Segreto professionale: un obbligo impegnativo

 |  Redazione Sconfini

Alcuni mesi fa ha suscitato un grande interesse nazionale, ma ha anche scatenato numerose polemiche, il caso che ha visto come protagonista uno psichiatra, responsabile di aver denunciato un suo paziente che gli aveva confidato, durante una seduta di terapia, di aver abusato delle sue nipotine. Si tratta di una vicenda decisamente scottante, che ha improvvisamente messo al centro dell’interesse pubblico un aspetto che coinvolge molti professionisti, spesso involontariamente posti di fronte ad un bivio che vede da un lato l’obbligo di tutelare la giustizia, dall’altro la tutela della privacy degli assistiti. Help! ha cercato di far luce su un argomento tanto spinoso attraverso una serie di domande poste a quattro stimate personalità del mondo del lavoro e della religione e aventi come obiettivo quello di mettere in luce non solo la professionalità, ma anche e soprattutto la sensibilità delle persone che hanno accettato di essere intervistate.

 

Il primo professionista cui ci siamo rivolti è un medico: si tratta del dottor Walter Zorzetto, specialista in farmacologia e stimato medico di base di Pordenone.

 

Dottor Zorzetto, qual è la definizione di segreto professionale secondo il Codice deontologico dei medici?

“Il segreto professionale definito dalle norme in vigore comprende tutto ciò che il medico viene a conoscere nel rapporto con il paziente nell’esercizio della sua professione, quindi le confidenze che il paziente gli fa e tutto ciò che viene visto e appreso nel rapporto con l’assistito e nella frequentazione dell’ambiente in cui questi vive”.

 

Quali sono i limiti di tale segreto?

“I limiti sono previsti dalla legge e riguardano le situazioni di conflitto fra la conservazione del segreto su quanto appreso durante l’attività lavorativa e gli interessi generali superiori che la legge garantisce. Si tratta per esempio del caso in cui un medico, in ragione della sua professione, venga a conoscere delle circostanze che hanno a che fare con un reato commesso da parte di un suo paziente: in base a questi avvenimenti il professionista deve considerarsi sollevato dall’obbligo di rispetto del segreto professionale e può addirittura essere obbligato a rivelare all’autorità giudiziaria la commissione di un reato e le coordinate necessarie a individuare il responsabile mediante un referto o un rapporto”.

 

In quali casi il medico vive con difficoltà il mantenimento del segreto professionale?

“Per esempio quando il citato rapporto o referto all’autorità giudiziaria espone il paziente del medico a provvedimenti penali; in questo caso viene a crearsi un conflitto tra il rapporto umano e di cura che il medico può avere con il paziente che ha commesso il reato e le conseguenze chealt si creano per quest’ultimo in seguito alla rivelazione del fatto”.

 

A volte capita che tra un medico e il suo paziente viene ad instaurarsi un rapporto che non è solo professionale, ma anche umano, dato il carattere confidenziale delle informazioni che vengono scambiate. Anche a lei succede questo?

“In un rapporto che non sia episodico, ma continuativo, esiste un aspetto educativo, che riguarda la possibilità di dare consigli di vita. Esiste anche la possibilità di essere in qualche modo coinvolti, non sempre piacevolmente e senza risvolti negativi, in situazioni familiari molto difficili”.

 

Questo le pesa?

“Può essere pesante, come può essere pesante rivestire nel contempo il ruolo di curante di più persone appartenenti ad una famiglia e il ruolo di denunciante, per esempio nel caso di maltrattamenti consumati fra le mura domestiche. Magari il medico segue una famiglia per un periodo e ad un certo momento viene chiamato ad intervenire per ragioni sanitarie in presenza di conseguenze di un maltrattamento, constatando che uno dei suoi assistiti ha commesso dei reati e ha procurato dei danni fisici ad altri componenti della famiglia, assistiti dallo stesso medico. In tal caso si crea una situazione per cui il professionista deve riferire l’accaduto all’autorità giudiziaria, accendendo un procedimento giudiziario nei confronti di altri componenti della famiglia e suoi pazienti”.

 

Quanto è difficile mantenere il segreto professionale quando si deve comunicare una malattia grave come un tumore?

“Bisogna essere innanzitutto in sintonia con il paziente, valutando di volta in volta se questo può sostenere o no la notizia. In caso affermativo sarà sufficiente comunicare la diagnosi all’interessato il quale sarà libero di renderla nota oppure no ai familiari, dopodiché la malattia verrà gestita in termini di accertamenti e cure direttamente con l’interessato. Se invece l’assistito è particolarmente vulnerabile, non è in grado di sopportare la notizia o non ne è cosciente, allora è opportuno coinvolgere il resto della famiglia, valutando gradualmente come e a chi comunicare la notizia. Si tratta di una decisione molto pesante perché è molto difficile dare queste comunicazioni ai non aventi diritto negandone invece il contenuto all’interessato: è un argomento imbarazzante, che ha risvolti giuridici importanti”.

 

Se invece si tratta di una malattia contagiosa o trasmissibile come l’Aids?

“Altro argomento spinosissimo… In questo caso comunico la diagnosi solo all’interessato, il quale poi deciderà se confidarsi o no con la famiglia. È chiaro però che, mentre è più facile rivelare di aver contratto la tubercolosi contagiosa, non è altrettanto semplice confessare di avere l’Aids o qualche altra malattia sessualmente trasmissibile, magari conseguente a rapporti extra coniugali: in queste occasioni può accadere che il paziente non si confidi con il coniuge, il quale a sua volta non può essere informato dal medico che si trova di fronte a un problema morale privo di soluzione. Per quanto mi riguarda in tali situazioni, una volta comunicata la diagnosi al paziente, prima cerco di fargli comprendere l’imperativo assoluto di utilizzare sistemi di protezione come il preservativo, e poi lo spingo a confidarsi con il coniuge, senza avere la certezza però che ciò accada davvero in quanto non posso costringerlo a farlo”.

 

Sentiamo ora il parere di un cattolico, di qualcuno che vive l’impegno del segreto professionale dal punto di vista religioso: queste sono le risposte che ci ha fornito Don Attilio Menia Cadore, presidente dell’Università degli Adulti-Anziani di Belluno-Feltre e parroco di Limana (BL).

 

Don Attilio, che cosa si intende con il termine segreto confessionale?

“Il segreto confessionale consiste nell’impegno e nell’obbligo di non rivelare quanto si attiene al Sacramento di Penitenza, sia per quanto riguarda l’identità del penitente che il contenuto della Confessione. Si tratta di un vincolo che riguarda il diritto divino naturale e che viene quindi definito diritto sacramentale, attinente direttamente la coscienza di una persona e la divinità. Per quanto mi riguarda, rispetto alla definizione data, credo sia importante sottolineare la gravità del vincolo del segreto in quanto per me rappresenta uno degli impegni più grandi che un sacerdote deve rispettare, al punto da non creare in lui nessun interesse relativo al contenuto o al soggetto della Confessione, come se questa non fosse mai avvenuta”.

 

Il segreto confessionale esiste in tutte le religioni?

“Innanzitutto bisogna distinguere la confessione e il segreto confessionale dalla direzione e quindi dal consigliere spirituale. Nelle altre religioni esiste l’impegno e il profondo dovere di mantenere il segreto tra il fedele e il ministro di culto, ma solo nel Credo cattolico questo dovere viene rivestito di un’ulteriore dimensione sacramentale in quanto risulta essere legato al rapporto uomo-colpa-divinità attraverso la mediazione di una persona deputata a gestire il Sacramento”.

 

Quali rapporti intercorrono tra un sacerdote e i suoi fedeli quando questi gli rivelano notizie spiacevoli o imbarazzanti?

“Qualora si vogliano creare particolari rapporti in seguito alla Confessione è opportuno avviare un nuovo e diverso percorso o cammino spirituale, nel qual caso i due soggetti assumono una nuova caratteristica: l’uno non quella di ministro sacramentale ma di maestro spirituale, l’altro non di penitente ma di persona bisognosa di consigli. Ciò fa capire quindi che il Sacramento della Confessione è qualcosa di a sé stante e di concluso in sé stesso che può aprire o non aprire un ulteriore rapporto non più sacramentale ma di tipo psico-pedagogico spirituale. Tengo a precisare che oggi non è solo la Confessione in deficit, ma anche la direzione spirituale, spesso sostituita dalle lettere ai rotocalchi o dai programmi televisivi”.

 

Il segreto confessionale ha dei limiti?

“No, non ne ha, è assoluto, e fa talmente parte della funzione di un sacerdote che non crea nessun disagio psicologico: si tratta di un coinvolgimento momentaneo che non lascia traccia”.

 

Custodendo quanto le viene confessato, che ruolo pensa di avere nei confronti dei suoi fedeli?

“Mi sento di avere un ruolo di persona comprensiva, saggia e buona, in modo che l’esperienza sacramentale sia liberante e liberatoria”.

 

Il terzo interlocutore a cui abbiamo rivolto qualche domanda è l’avvocato Giancarlo Zannier, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Pordenone.

 

Avvocato, ci può spiegare il significato del segreto professionale sulla base di quanto affermato nel Codice deontologico che i professionisti come lei devono seguire?

“Il segreto professionale rappresenta uno dei fondamenti della professione dell’avvocato, costituisce in effetti l’essenza stessa del rapporto professionale. L’importanza è tale che il Legislatore lo ha voluto tutelare in sede penale prevedendo inoltre tutta una serie di vincoli e limiti non solo per evitare abusi, ma anche per garantire il suo effettivo esercizio. A questo fine il Codice deontologico ha voluto espressamente affermare che «è dovere, oltreché diritto primario e fondamentale dell’avvocato, mantenere il segreto sull’attività prestata e su tutte le informazioni che siano a lui fornite dalla parte assistita o di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato». Il segreto viene quindi individuato in tutto ciò che riguarda la persona assistita e che è stato comunque appreso dall’avvocato nell’ambito del suo rapporto professionale. Certamente non potrebbe esistere un’attività professionale libera ed indipendente se non sussistesse il segreto professionale, non solo a garanzia e tutela dell’avvocato e del suo assistito ma soprattutto nell’interesse pubblico, tenuto conto che proprio la riservatezza dei rapporti consente l’esplicazione di un’attività di assistenza e di difesa che è essenziale per la realizzazione della giustizia. È evidente che il principio del segreto professionale coinvolge, oltre all’avvocato come individuo, anche l’ufficio nel suo complesso con riguardo sia ai praticanti che agli altri collaboratori diretti e ai dipendenti”.

 

Qual è il suo stato d’animo sapendo di svolgere una professione che comporta una responsabilità così grande?

“Nel momento in cui una persona decide di svolgere la professione di avvocato deve sapere quali sono i suoi diritti e doveri e deve essere consapevole del fatto che fra questi vi è proprio quello di mantenere il segreto sull’attività prestata. Ci rendiamo perfettamente conto della particolarità e importanza di tale diritto-dovere non solo per le molteplici implicazioni che lo stesso ha nei rapporti con il cliente, ma sopratutto perché la norma tende alla difesa della libertà e sicurezza dei rapporti professionali, per cui la rivelazione del segreto colpisce l’essenza stessa di un’attività che si rivolge alla realizzazione della giustizia. Vi possono essere momenti di dubbio sull’effettiva portata di tale diritto-dovere, nel qual caso l’avvocato ha l’obbligo di rivolgersi al proprio Ordine professionale per evidenziarli e chiedere consiglio”.

 

Quali sono i limiti, se ci sono, del segreto professionale?

“In sostanza si ritiene il segreto venga meno quando sussiste il consenso e/o l’autorizzazione della parte assistita, o una giusta causa per la sua rivelazione. Le ipotesi sono: a) per lo svolgimento dell’attività di difesa, il che avviene quando l’informazione viene palesata per ragioni difensive secondo scelte tecniche che spettano al professionista; b) al fine di impedire la commissione di reati di particolare gravità; c) nel caso in cui vi sia una controversia tra avvocato ed assistito, legata per esempio al pagamento del compenso; d) qualora la dichiarazione dell’avvocato sia necessaria per evitare un’incriminazione penale rivolta a sé stesso, ossia nei casi in cui sia necessario difendersi da un’incolpazione disciplinare”.

 

Non le sembra una contraddizione parlare di segreto professionale e al tempo stesso poi consentirne la divulgazione secondo i casi prima elencati?

“No, non direi: il segreto professionale è assoluto, salvo le eccezioni individuate dall’Ordine professionale. Anche lo Stato può stabilire delle norme, le quali però devono sempre tutelare i professionisti in modo da non creare uno stato di conflitto e non andare contro i principi della Costituzione”.

 

Nel suo lavoro conta di più la razionalità o la sensibilità?

“Contano entrambe, e proprio i casi considerati quali eccezioni lo prevedono. Sono criteri che devono coesistere, in quanto agire solo con razionalità o solo con sensibilità non è corretto: è solo un giusto mix dei due componenti che permette all’avvocato di svolgere al meglio la propria professione”.

 

L’ultimo professionista che abbiamo voluto incontrare è una psicologa di impostazione sistemico-relazionale, che presta gran parte della sua attività alla cura dei disturbi alimentari. Per la delicatezza del compito svolto ha preferito mantenere l’anonimato, ma ha risposto volentieri alle nostre domande.

 

Dottoressa, il suo Ordine professionale richiede procedure particolari per garantire il mantenimento del segreto professionale?

“Sì, io e i miei colleghi siamo tenuti a far firmare ai nostri pazienti una dichiarazione in base alla quale viene rilasciato il consenso all’utilizzo di informazioni private per fini professionali”.

 

Come concilia le informazioni private che i suoi assistiti le confidano con quanto è tenuta a comunicare alla famiglia per cercare di risolvere le problematiche rilevate?

“Bisogna innanzitutto distinguere se il paziente è minorenne o maggiorenne: nel primo caso sento il dovere di informare la famiglia e organizzo un colloquio con essa, soprattutto nel caso in cui vi sia l’insorgenza di grosse problematiche come il consumo di droga; nel caso in cui il paziente, invece, abbia raggiunto i diciotto anni comunico ai familiari solo quanto il paziente mi permette di rivelare organizzando un incontro di gruppo cui partecipa anch’esso. Ritengo che sia fondamentale la presenza della famiglia soprattutto nel caso dell’insorgenza di disturbi alimentari, ma in situazioni simili tutelo il mio assistito mantenendo due realtà separate: se ho in cura una ragazza la cui famiglia decide di essere coinvolta nella terapia, affido quest’ultima ad un collega che lavora in team con me mentre io mantengo il rapporto con la mia assistita”.

 

Che cosa rappresentano per lei i pazienti, dal momento che in sua presenza si aprono completamente?

“Come psicologa sistemico-relazionale ritengo che il rapporto con il paziente sia fondamentale e la relazione che si instaura con esso si costruisce sul lungo periodo, attraverso movimenti così sottili da richiedere molto tempo, molta pazienza e molta pratica per poter essere riconosciuti. Per questo i pazienti sono nella mia testa e nel mio cuore, ma con la pratica ho imparato anche a separare la vita privata dal lavoro evitando così di nutrire per loro un’ansia materna e costruendo così la mia professionalità e serietà”.

 

Come affronta le difficoltà legate ad un obbligo così grande?

“Mi rifaccio a quanto appena detto e confermo che sia possibile sostenere questo impegno grazie allo sviluppo della propria professionalità, della propria serietà e della riservatezza che si impara a coltivare solo con l’esperienza e il profondo amore per il proprio lavoro”.

Francesca Fogliato

 

 

In collaborazione con Help!

 

 


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