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Mobbing: gli spettatori silenziosi non lo contrastano

 |  Redazione Sconfini

Da una ricerca commissionata nel 2002 dal Centro di Riferimento Italiano dell’Agenzia Europea che si occupa di sicurezza e salute del lavoro, è emerso un dato che pone l’accento su una priorità in tutti i Paesi dell’Unione: i fattori di rischio psicosociali negli ambiti lavorativi quali stress e mobbing. Un terzo dei lavoratori dell’Unione, circa 40 milioni, ha dichiarato di soffrire di stress sul posto di lavoro, mentre il 9%, approssimativamente 12 milioni di persone, ha segnalato di essere stato vittima di mobbing nel corso del 2000.

 

Secondo Cox e Griffith (1995) per rischi psicosociali si intendono “quegli aspetti di progettazione, di organizzazione e di gestione del lavoro, nonché i rispettivi contesti ambientale e sociale che potenzialmente possono arrecare danni fisici e psicologici” ai lavoratori. Se lo stress può essere la conseguenza di una risposta soggettiva alle sollecitazioni degli eventi quotidiani e il burn-out generato da obiettivi personali difficili da gestire e raggiungere e da carenze organizzative, il mobbing invece prevede l’intervento di terzi legato a secondi fini quali il danneggiamento e l’allontanamento dell’individuo lavoratore.

 

I rischi psicosociali sono in grado di incidere sullo stato di salute e benessere degli individui esposti, fino a produrre veri quadri patologici organici e funzionali. Lo stress ha ormai una tradizione di studi che si è andata consolidando fin dalla prima definizione di H. Selye nel 1936, il mobbing invece solo in questi ultimi anni si è definito anche in Italia come problema e fenomeno sociale. Fenomeno antico come il lavoro, ha infatti solo recentemente assunto una configurazione tale da suscitare l’interesse delle istituzioni, delle parti sociali e del mondo dell’imprenditoria.

 

Una definizione internazionale e nazionale univoca di mobbing non c’è e questo fenomeno assume persino denominazioni diverse: nel Regno Unito è bullying, in Francia harcèlement moral, negli USA è conosciuto come work o employee abuse. In Italia il termine mobbing fu introdotto da H. Leymann nel corso di una conferenza a Milano oltre dieci anni fa e da psicologo mutuò dall’etologia la definizione di condizione lavorativa di attacco, di aggressione sistematica nei confronti di una vittima designata.

 

Nel 2002 l’allora ministro della Funzione Pubblica Franco Frattini istituì una “Commissione di analisi e studio sulle politiche di gestione delle risorse umane e sulle cause e le conseguenze dei comportamenti vessatori nei confronti dei lavoratori”. Quella Commissione ebbe il merito di portare il problema all’attenzione delle imprese, di prevedere una strategia di prevenzione e modalità d’intervento per il sostegno alle eventuali vittime. Il Parlamento Europeo ha poi esortato “gli stati membri a rivedere e, se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro, nonché a verificare e ad uniformare la definizione della faaltttispecie del mobbing”. La suddetta Commissione definisce mobbing “atti, atteggiamenti o comportamenti di violenza morale o psichica, in occasione di lavoro, ripetuti nel tempo in modo sistematico e abituale, che portano a un degrado delle condizioni di lavoro, idoneo a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore”. Solo in ambito lavorativo questa parola assume il significato di pratica persecutoria o violenza psicologica perpetuata da un mobber (parte attiva) nei confronti di un mobbizzato (parte passiva) per costringerlo alle dimissioni o comunque ad uscire dall’ambito lavorativo.

 

Fra gli elementi identificativi del mobbing, oltre la presenza di almeno due soggetti (mobber e mobbizzato), vi è anche l’attività vessatoria che deve essere continua e duratura (una volta la settimana per almeno sei mesi) e i motivi che possono essere i più svariati: invidia, razzismo, diversità religiosa o culturale, carrierismo sfrenato, o semplice gusto nel far del male ad un’altra persona.

 

Esistono due tipi fondamentali di pratiche persecutorie: mobbing verticale o strategico e mobbing orizzontale o emozionale. Il primo è esercitato da parte dei datori di lavoro o dal top management per promuovere l’allontanamento di dipendenti divenuti difficili da gestire, inducendoli a licenziarsi da soli, schivando così eventuali problemi sindacali. Spesso si tratta di vere strategie aziendali (bossing) verso personale in esubero a causa di operazioni di fusione o di ristrutturazione aziendale, personale adibito a lavorazioni dimesse, seniores divenuti eccessivamente costosi, soggetti assunti quasi forzatamente in ossequio ad adempimenti di legge. Il mobbing orizzontale o emozionale, invece, si scatena tra i singoli soggetti colleghi di lavoro, per gelosia per colleghi più capaci o in seguito alla competizione sempre più spinta anche per il mantenimento del posto di lavoro. L’obiettivo, in tal caso, è quello di isolare la persona ritenuta una minaccia o un pericolo. L’occasione di inizio della dinamica può essere banale e la situazione di isolamento può venire ulteriormente amplificata anche dai comportamenti dei cosiddetti “side mobbers”, cioè di tutti quei soggetti (superiori gerarchici, direttori del personale, ma anche semplici compagni di lavoro) che, pur non essendo responsabili in prima persona della condotta vessatoria, scelgono, essendone a conoscenza, di restare “spettatori silenziosi” delle persecuzioni a danno della vittima designata.

 

Guardando il fenomeno in profondità emerge il legame causale con i generali problemi legati all’occupazione e al ridimensionamento dell’organico: le ristrutturazioni di aziende private e pubbliche, l’evoluzione delle competenze professionali scatena atteggiamenti vessatori. Mentre per la prevenzione del mobbing strategico è necessaria una diversa progettualità del lavoro, che non carichi sui soggetti più deboli le difficoltà del cambiamento imperfetto, la promozione di una cultura organizzativa fondata su valori condivisi, una sana competizione, potrebbero contenere e prevenire comportamenti distruttivi delle persone ma pure l’immagine d’impresa e della qualità dei prodotti finali, senza sottacere sui costi sociali, sanitari e previdenziali che il fenomeno comporta.

 

Il mobbing ha conseguenze che possono essere di enorme portata sulla persona soggetta a soprusi e abusi: gli effetti si sviluppano secondo una gamma varia e sempre più grave man mano che le aggressioni si consolidano e proseguono nel tempo. Nella prima fase del conflitto gli attacchi (aggressioni verbali, derisione, isolamento sociale, assegnazione di incarichi privi di senso) provocano un certo malessere che nei primi sei mesi si può manifestare con sintomi psicosomatici: incubi, insonnia, inappetenza, nausea, solitudine e ripiegamento in sé. La fase che segue vede il passaggio dal mobbing al terrore psicologico, che crea uno stato cronico di ansietà che può sfociare in depressione, fobie, pensieri ossessivi, uso e dipendenza da tranquillanti, abulia e assenza dal posto di lavoro per malattia. A questo punto, l’Ufficio del personale, inserendosi attivamente nella strategia verso la vittima, la ritiene spesso responsabile della situazione. Il lavoratore è così sempre più isolato, criticato e non di rado calunniato, distrutto nella fiducia in se stesso.

 

Consolidate le manie ossessive, la vittima può manifestare malattie di vario tipo, nervose e fisiche, aggressività contro se stesso, fino al suicidio, e contro la famiglia, che risulterà minata nelle relazioni interpersonali. Il danno economico può essere gravoso e le estreme conseguenze possono essere il licenziamento, la mobilità o il prepensionamento. Il mobbing può portare all’invalidità psicologica (l’Inail ha cominciato a considerare il mobbing come malattia professionale non tabellare). Nel caso di degenerazione verso malattie professionali è la spesa della Sanità pubblica a subirne il carico: i costi sociali della violenza psicologica danneggiano lo stesso stato sociale.

 

Quali strumenti ha il lavoratore per contrastare i fenomeni vessatori quando realizza di esserne vittima? I Comitati Paritetici sul fenomeno del mobbing (ai sensi dell’art. 8 del CCNL dei dipendenti degli enti locali) sono tuttora una chimera: è operativo sul territorio nazionale solo uno, nella Regione Marche, che ne ha approvato il regolamento nel 2005; la stessa Regione ha adottato un “Codice etico per la tutela e la dignità dei lavoratori” e attivato nel 2006 lo “Sportello d’ascolto” per i suoi dipendenti che abbiano a che fare con questo problema. Le competenze passano dal Tar al Giudice del lavoro con tentativo obbligatorio di conciliazione. Chi denuncia ha l’onere della prova: deve produrre prove testimoniali e documentali.

 

Concludendo, appare quindi indispensabile prevenire e rimuovere a monte le condizioni di disagio lavorativo. Codici di comportamento che indichino le interazioni accettate e le conseguenze di eventuali infrazioni, una politica di sostegno del personale, la valutazione di tutti i rischi della struttura organizzativa, una cultura che riconosca il fenomeno: sono alcuni strumenti che non solo prevengono il mobbing ma sono di tutela per la salute dei lavoratori. Ogni impresa, privata e pubblica, dovrebbe essere tenuta ad adottarli, non solo per ottemperanza alla legge ma in virtù del suo mandato sociale.

Ignazia Zanzi

 


 

Dal punto di vista giuridico...

 

... pur in assenza di una legge specifica sul mobbing, nel nostro ordinamento esistono diverse norme, costituzionali, civilistiche e penali che permettono di difendersi dai comportamenti persecutori che avvengono in ambito lavorativo.

La nostra Costituzione (artt. 2, 3, 32, 35, 41) riconosce la tutela della salute come un diritto fondamentale dell’uomo e prevede la tutela del lavoro in tutte le sue forme. Al Codice Penale (art. 582), al Codice Civile (art. 2087) e allo Statuto dei lavoratori (D.Lgs. 626/94) ci si può appellare per la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore.

 

 
In collaborazione con Help!

 

 


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