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Che cosa cambia tra impero e impero

 |  Redazione Sconfini

Esattamente come quella che governa la natura, anche la logica del potere è amorale. Virus, organismi monocellulari, piante e animali tra cui l’essere umano tendono a espandersi nel mondo guidati dalla necessità istintiva di badare alla propria sopravvivenza. È una forza cieca che potendo non si arresterebbe di fronte a nulla, che cerca di abbattere tutto quello che entra in concorrenza con l’istinto primario di nutrirsi, vivere, riprodursi. Se oggi nel quinto ricco del mondo abbiamo perso di vista questa realtà, è solo perché il lavoro sporco lo sbriga qualcun altro per noi.

 

Le forme del potere istituzionalizzato, gli Stati e gli imperi, in quanto prodotti dell’attività umana conservano un’impronta primigenia che li associa in qualche modo all’ordine naturale, rendendoli assimilabili agli esseri viventi per modalità di comportamento. Per riconoscerlo, non occorre dichiararsi reazionari e nostalgici del socialdarwinismo ma soltanto avere un’infarinata del nostro Machiavelli. Gli Stati e gli imperi si muovono sulla scena mondiale obbedendo alla legge della sopravvivenza, e mirano all’acquisizione di potenza come mezzo di dilazione della propria morte.

 

In questo, tra loro sono tutti uguali. E su questo piano non c’è nulla che li differenzi dagli animali a prescindere dal posto da loro occupato sulla scala evolutiva. Può essere una verità amara, ma le condizioni base dell’esistenza su questo pianeta (procacciamento e sfruttamento delle risorse) non rifuggono da un basico sistema binario on e off, di vita o morte, e all’interno del loro perimetro la morale finora non è stata di casa. Non sono né buone né cattive la voglia di vivere e la paura di morire. Sono e basta, e ce le hanno tanto gli individui quanto gli Stati.

 

Per esempio, gli Stati Uniti dopo la guerra fredda hanno fatto quello che tutti gli imperi hanno sempre fattalto. Dal democratico Clinton ai repubblicani Bush padre e figlio, la direttrice di fondo è stata quella di inglobare nella propria sfera di influenza le marche di confine appartenute al nemico sconfitto e di consolidare, dal lato economico e militare, la posizione egemone conquistata dopo un conflitto lungo e logorante.

 

Ha cominciato Bush padre con la prima guerra del Golfo, che aveva l’obiettivo di gettare le basi di una supremazia statunitense solitaria e di lungo periodo nel Medio Oriente. Ha proseguito Clinton, favorendo con atto esterno alla cornice dell’Onu lo smembramento dell’anello di mezzo rappresentato dalla Jugoslavia, e ripristinando il vecchio cordone sanitario intorno alla Russia tramite l’inserimento nella Nato degli Stati centroeuropei ex sovietici. È andato avanti Bush figlio con una serie di interventi ora di soft ora di hard power in Europa e nella regione caucasica (Ucraina, Georgia, Afghanistan), in Estremo oriente (Corea del nord) e ancora nel Golfo persico (Iraq e Iran).

 

Durante gli ultimi vent’anni, la Russia ha assistito a queste manovre in uno stato di coma solo apparente. Diciamo che appena terminata la guerra fredda si è avviata una fase di redistribuzione del potere a livello planetario, e che questa partita ha visto la Russia giocare carte dall’inizio poco appariscenti ma di alto valore strategico. In un certo senso Putin ha iniziato la ricostruzione della potenza russa dove era finita quella sovietica all’epoca della disastrosa guerra afghana, cioè nel Caucaso, ossia il cuore del continente euroasiatico, una delle zone più preziose del pianeta sotto il profilo energetico.

 

La volontà di non perdere la Cecenia costi quel che costi, l’espansione commerciale delle società petrolifere e del gas – in testa Gazprom – lungo quella fascia di Stati dal nome impronunciabile mai dissociatisi dalla Csi (Turkmenistan, Azerbajan, Kazakhstan, Uzbekistan, Kyrgyzstan): erano tutti segnali dell’incubazione di un grande disegno tracciato fondamentalmente su due linee. La prima puntava ad assicurare alla Russia un ruolo centrale nel rifornimento delle galoppanti economie asiatiche; la seconda a rientrare in frizione diretta con l’impero americano per il controllo geopolitico sull’Europa. Gli eventi degli ultimi mesi raccontano che il disegno è arrivato a uno stadio avanzato di sviluppo, e pertanto una resa dei conti non è lontana.

 

Proiettato sullo sfondo degli obiettivi massimi, dicevo all’inizio, l’agire degli imperi è indistinguibile. Ma esattamente com’è per gli esseri umani, ciò che fa la differenza sono i metodi e soprattutto i contenuti delle loro azioni, da quelle minime delle esigenze quotidiane a quelle che attengono all’esercizio del comando sugli altri. Con sano disincanto si può dire che l’Europa, destinata con ogni probabilità a rimanere frammentata e perciò subordinata all’uno o all’altro polo, si trova in mezzo a un’imperfetta autocrazia russa e a un’imperfetta democrazia americana. E anche mettendola così, non dovrebbe avere dubbi prima di scegliere da quale parte stare.

Patrick Karlsen

 


In collaborazione con Help!

 

 


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