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Giovani, che orrore (parte I)

 |  Redazione Sconfini
Bistrattati, spremuti, dimenticati. Ma anche viziati dalla culla ai capelli bianchi. Esiste una questione giovanile in Italia? Ne abbiamo parlato con Bruno Zvech, esponente regionale dei Democratici di Sinistra. Che assicura: «I giovani sono il cardine dello sviluppo economico e della coesione sociale».

Vittime, più di altre categorie, della precarietà sul lavoro e delle sperimentazioni in materia di welfare con cui si baloccano da un po’ (troppo) i governi paralizzati dal mito liberista. Subissati da discutibili modelli di realizzazione personale che vengono propinati dalla società del consumo attraverso i media e la pubblicità. Ignorati, guardati con sospetto e forse addirittura con timore dalla politica. Signore e signori, ecco a voi i giovani italiani. Anello debole della collettività del Paese, simbolo dei suoi affanni e dei ritardi crescenti accumulati nei confronti delle locomotive che oggi, nel mondo, tirano davvero e impongono il ritmo.

Zvech partito democratico giovani politica precarietàDella questione giovanile – che va a sommarsi, peraltro, a tutte le altre questioni ereditate dalla storia italiana e mai risolte – abbiamo deciso di parlare con due esponenti della politica regionale, uno di centrodestra e uno di centrosinistra. Iniziamo questo mese con Bruno Zvech, capogruppo in Consiglio regionale dei Democratici di Sinistra, a lungo guida della Cgil del Friuli-Venezia Giulia.

Oggi la figura dell’“emergente” in Italia è, mediamente, una persona sui quaranta-quarantacinque anni, pressoché in tutti i campi. Com’è possibile?

Parto da un presupposto, da un principio che ho sempre avuto a cuore: noi questo pianeta lo abbiamo preso in prestito dalle future generazioni. Una società che non investe sui giovani non ha futuro. Sono il cardine dello sviluppo economico e della coesione sociale. Ricordiamoci che senza sviluppo è difficile trovare le risorse per il sociale, ma senza coesione, in una società disgregata, lo sviluppo incontra impedimenti. Poi c’è la questione che riguarda il sistema formativo, che va riformato non tanto – per dirla banalmente – in senso favorevole alle imprese ma per renderlo più attento alle esigenze formative delle giovani generazioni. Viviamo in un mondo delle professioni che non richiede più il modello dell’“enciclopedia universale” ma una serie di competenze specifiche da integrare in un progetto di vita individuale. Come tutti sanno la competizione mondiale si è allargata e spostata su altre assi. Ma il problema spesso è stato male impostato. Davanti all’esigenza, indiscutibile, di rendere più flessibili le attività produttive qualcuno – nella fattispecie il governo precedente di centrodestra – ha studiatamente confuso flessibilità e precarietà. Noi dobbiamo diventare flessibili nei modi e nei tempi della produzione, innovando e puntando sulla qualità; ma dobbiamo anche capire che un’eccessiva precarietà danneggia la stessa flessibilità, perché danneggia i giovani privandoli della possibilità di costruirsi un futuro, e danneggia anche le imprese perché impoverisce la qualità del lavoro erogato.

Domina però la logica del profitto a breve termine. Si pensa al domani e mai al dopodomani.

Sì, ma va riformato un sistema che pretende la massima flessibilità dai giovani e dai lavoratori ma non usa lo stesso metro con chi fornisce beni e servizi. Le prime a essere più flessibili, per esempio, dovrebbero essere le banche, quelle banche che non concedono il mutuo per la casa ai giovani precari e in termini di concorrenza lasciano troppo spesso a desiderare. E anche le imprese non possono continuare a puntare su schemi produttivi ormai obsoleti e pretendere che a innovarsi siano sempre e solo tutti gli altri. Bisogna avere il coraggio di scommettere sulle idee, elaborare politiche di sviluppo complessivo, avere un’idea di quale futuro vogliamo dare al Paese.

Da un lato trascurati e sfruttati, ma dall’altro imboccati dalla famiglia fin oltre i trent’anni e deresponsabilizzati dai modelli propinati dai media. Secondo lei è anche per questo mix di contraddizioni che in Italia il disagio giovanile non riesce a tradursi in protesta? In Francia le ribellioni di piazza hanno costretto il governo a ritirare una legge sul lavoro che, in termini di precarietà, era più morbida di quella in vigore da noi.

Non so se in Francia quel provvedimento fosse tanto più lieve della legge Biagi. Anzi, mi pare di no. Credo però che da noi viga un atteggiamento che potremmo definire “risarcitorio”. Ti deprimo un poco rispetto alle tue potenzialità ma al contempo ti assisto. Che è precisamente il modo più efficace per certificare il declino dell’Occidente. Ai giovani vanno date tutte le opportunità ma i risultati vanno pretesi. Nella scorsa campagna elettorale ho sentito Silvio Berlusconi accusare la sinistra di voler rendere uguali il figlio dell’operaio e il figlio del dirigente. Non ha capito che noi non vogliamo tutti i ragazzi con la stessa maglietta, lo stesso motorino e le stesse patatine; non è l’uguaglianza del risultato finale che vogliamo garantire al figlio dell’operaio e a quello del dirigente, ma le pari opportunità di inizio percorso. In una società civile non ci devono essere barriere pregiudiziali per nessuno.

La competizione per la guida del Paese ha visto concorrenti due settantenni. Il ministro più giovane del nuovo governo è Giovanna Melandri con 44 anni. Cosa non funziona più tra politica e giovani? Tenendo conto che da parte loro l’impegno e la passione (almeno potenzialmente) non sembrano mancare.

Non solo la politica, c’è anche il mondo del volontariato che li ha per splendidi protagonisti. Indubbiamente esiste un problema di funzionamento dei partiti tradizionali, forse oggi non attrezzati a intercettare l’interesse giovanile.

Le vecchie scuole di partito dove sono finite?

No, guardi, oggi c’è bisogno di diversi percorsi formativi non basati esclusivamente sui partiti ma in grado di coinvolgere le più ampie porzioni possibili di società. Il problema forte è di linguaggio. Pensare che i giovani del 2006 siano in svantaggio, dal punto di vista cognitivo, rispetto alle generazioni del passato è ovviamente una fesseria. La loro capacità di raccogliere stimoli e informazioni è imparagonabile. Lo dice un cinquantenne che, prima della politica, era insegnante di professione e si ricorda che da ragazzo la tv aveva due canali, e oltre a Rin Tin Tin e Tarzan, per chi aveva la mia età, c’era poco da guardare.

Certo è difficile, pensando alla situazione italiana, cancellare l’immagine della gerontocrazia che teme e tiene alla larga i giovani in quanto possibili portatori di novità. E che associa a sé soltanto i più fidi mediante un sistema basato su nepotismo e raccomandazioni.

Ma va pure tenuto conto del fatto che l’aspettativa di vita, negli ultimi decenni, è notevolmente aumentata. Le scadenze e le tappe si sono dilatate. Quindi benissimo dire largo ai giovani, senza dimenticarsi però che c’è una foltissima fascia di quarantenni a cui non si può negare l’aspirazione al successo. Inoltre, esistono i giovani vecchi e i vecchi giovani. Uno degli spiriti più giovanili che al momento abbiamo in Italia è, secondo me, Vittorio Foa, che di anni ne ha 95. Premesso tutto questo, è innegabile che la questione si faccia sentire. E sia necessario dare segnali concreti perché si dimostri che la vita pubblica italiana sia appannaggio anche di chi è sotto i quaranta.

Patrick Karlsen

 

 


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