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Giovani, che orrore (parte II)

 |  Redazione Sconfini

Roberto Antonione: «La nostra società ricca e appagata, paradossalmente, svantaggia quelli che dovrebbero essere i protagonisti naturali del cambiamento e dell’innovazione».

Nella conversazione con Bruno Zvech, avevamo sottolineato alcuni aspetti dell’attuale condizione giovanile in Italia. Si era constatato, così, come spesso siano i giovani i soggetti sociali che più subiscono, oggi, la precarietà sul lavoro e le sperimentazioni dei governi in materia di welfare. Avevamo osservato inoltre come e quanto siano subissati, o plagiati, da modelli assai discutibili di realizzazione personale propagati dalla società del consumo attraverso i media e la pubblicità. E infine si era riflettuto su come siano ignorati sempre più, se non guardati addirittura con sospetto, dalla politica. Chiediamo questa volta a Roberto Antonione – già presidente della Regione Friuli Venezia Giulia e ora senatore di Forza Italia – come e perché si sia arrivati a questo punto.

Antonione Forza Italia PDL politica giovani precarietà«Si tratta di un segno, collegato a tanti altri, di una società che definirei – a dispetto del fatto che l’aggettivo possa sembrare forte – decadente. Quantomeno di una società che non sta più progredendo, che si trova in una fase di stagnazione, senza l’entusiasmo necessario per rispondere a problemi importanti. Non sono un sociologo e perciò non so dare spiegazioni o esprimere giudizi netti su comportamenti collettivi così complessi. Però ritengo che la situazione vada collegata al contesto di una società che è riuscita ad accumulare benessere, ha messo da parte risorse cospicue e si trova oggi in qualche modo appagata, svuotata di stimoli. Lo si capisce molto bene nel confronto con le realtà di Paesi anche vicinissimi a noi. Nell’Est Europa c’è oggi un dinamismo straordinario, nella classe politica così come in tutte le altre articolazioni della società. Il clima di appagamento che si respira da noi, viceversa, svantaggia i protagonisti naturali del cambiamento e dell’innovazione, cioè i giovani. D’altra parte è assurdo pensare che ci sia una politica precisa mirante alla loro esclusione. Anzi, a ben pensarci è in loro stessi che mi pare mancare quel certo spirito appartenuto invece alla mia generazione, che era convinta di cambiare il mondo. Poi il mondo cambiò noi, ma la nostra voglia di cambiamento c’era ed era eccezionale. Una società in grado di sfruttare questo entusiasmo, questa ingenuità giovanile, è una società che ha davanti a sé un grande futuro. Ecco, la nostra non ha né l’entusiasmo dei giovani né la capacità di stimolarla».

Da un lato spremuti e dall’altro coccolati e viziati: è anche per questa contraddizione che non si accende la miccia di una protesta?

«Esattamente. La società benestante, la società che ottiene tutto con relativa facilità è portata a proteggere i suoi giovani più che a spronarli ad agire, a tirare fuori le loro risorse per affrontare il domani, a stimolare il loro protagonismo. Cerca piuttosto di ripararli dietro a uno scudo, ma col risultato di indebolirli. Con un paragone medico si può dire che diamo loro talmente tante difese, da renderli, una volta entrati in contatto con un agente esterno, inadatti a sviluppare i propri meccanismi immunitari. È un modello educativo profondamente sbagliato, maturato anche a seguito di una modificazione economica della società. Faccio un esempio, banale se si vuole ma che ritengo indicativo. Quando quelli della mia età erano bambini, dai 6 ai 13-14 anni, i nostri genitori – al di là di apprezzabili differenze di censo – ci mandavano a scuola da soli, e se qualcuno di noi veniva accompagnato era guardato con una certa ironia e un certo sospetto; nelle ore libere ci lasciavano giocare in strada. Non c’entra il traffico, una volta minore: spazi senza traffico ce ne sono anche oggi. C’entra invece che nei rioni di Trieste e delle altre città d’Italia erano diffusi i piccoli esercizi commerciali, che si affacciavano sulle vie e sulle piazze: la bottega, il “fruttaeverdura”, la panetteria, la latteria, la drogheria, la bottiglieria, il barbiere. Allora un bambino che giocava all’aperto era controllato a vista da tutte quelle persone del rione, che erano le prime, poi, ad andare a raccontare ai genitori qualsiasi avvenimento fuori del comune. Si chiama controllo del territorio. Ma piano piano si è trasformato il modello sociale. Scomparsi i negozietti, solo enormi centri commerciali. Le periferie – e non solo quelle – svuotate. Insomma si sono occlusi quei canali di socializzazione che avevamo noi. I quali erano anche canali di crescita e di responsabilizzazione.

Bruno Zvech, nell’intervista precedente, ha sostenuto che lo scorso governo di centrodestra ha confuso studiatamente flessibilità e precarietà. E che bisognerebbe finirla di richiamare alla flessibilità solo i lavoratori e gli anelli più deboli della società, e mai le agenzie di beni e servizi ancorate su modelli di fornitura e produzione obsoleti e non più competitivi.

Al di là degli slogan, credo che sia del tutto evidente che il nostro modello sociale e produttivo, rimasto per tanti anni un punto fermo, debba essere in qualche modo rivisto e superato. Ciò non significa che bisogna andare incontro per forza alla precarietà fatta sistema. Ma delle due l’una: o diventiamo competitivi nel mondo o instauriamo una società autarchica. La seconda alternativa noi italiani l’abbiamo già sperimentata nel famoso Ventennio e non mi pare sia stata una soluzione ricca di risultati. Lasciamo da parte gli slogan e confrontiamoci piuttosto per trovare insieme le iniziative migliori da mettere in campo.

La questione della meritocrazia: quanto conta in Italia il merito individuale e quanto la conoscenza, la raccomandazione, la spintarella? È diffusa l’impressione che gli unici a percorrere rapidamente la scala professionale siano i giovani cooptati dall’alto attraverso metodi ben poco trasparenti.

Io credo un’utopia pensare a una società asettica, perfetta, dove tutto questo sia assente. Tutti noi raccomandiamo qualcuno, non solo in politica ma a qualsiasi livello: se abbiamo un amico capace, pensiamo che sia corretto presentarlo in giro e aiutarlo. A me è capitato di segnalare ad altre persone alcuni fornitori che con me si erano comportati seriamente: e non ci vedo nulla di anormale. È il famoso passaparola, ma attenzione: del tipo pulito. La quesione cambia quando…

…quest’abitudine diventa sistema?

Non tanto quando diventa sistema, ma quando faccio la segnalazione non perché penso sia giusto farlo, ma perché so che ne ricavo un vantaggio. Allora sì che il fenomeno si fa patologico. Del resto, penso pure che la società abbia costruito i suoi anticorpi e che alla lunga distanza si riesca a capire qual è la persona in grado di camminare sulle sue gambe. Le difficoltà inziali possono essere tante, non c’è dubbio, ma sono convinto che chi vale davvero non resta indietro; e chi non vale niente non va avanti. Poi per carità ci sono le eccezioni importanti. Ed è una situazione che non si cambia con un decreto legge, purtroppo. Si cambia entrando nella testa della gente, modificando la cultura diffusa. E magari iniziando con un bell’esame di coscienza individuale, per capire che è la somma delle nostre piccole azioni quotidiane a creare il fenomeno sociale. Infine è fondamentale denunciare: sia il negativo sia il positivo. Da una parte, solo così possiamo sperare che le famose eccezioni vengano penalizzate a dovere; dall’altra, avremo gratificato chi se lo merita e gli avremo dato un aiuto per avanzare professionalmente.

Patrick Karlsen

 

 

 

 


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