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Balcani, sogno e incubo d'Europa

 |  Redazione Sconfini

C’era una volta un sogno chiamato Jugoslavia. In questo sogno c’erano dei popoli che per sopravvivere al mondo moderno avevano deciso di affidarsi a un destino comune. Dopo un avvio travagliato, il loro patto fu messo alla prova del fuoco da una guerra eroica, combattuta in risposta a una brutale aggressione. La guerra alla fine fu vinta, la libertà e l’indipendenza del Paese preservate. Il patto ne uscì rafforzato.

 

Da allora e per molti anni quei popoli affratellati avevano convissuto in pace. Avevano lentamente ricostruito il Paese e si erano mescolati fra loro (spesso e volentieri con ottimi risultati sul piano estetico). Erano consapevoli delle loro particolarità. E nel complesso ne sarebbero stati fieri per lungo tempo.

 

Il loro infatti era un Paese vivace, per molti versi originale. Pretendeva di edificare una forma tutta sua di socialismo, più umano ed efficiente di quello omicida e statolatra incarnato dal modello sovietico. Molto presto si era rifiutato di aderire alla secca logica delle appartenenze della guerra fredda, ponendosi fra i leader di quel gruppo di nazioni che non intendevano stare né con un blocco né con l’altro.

 

Il suo esempio risaltava nel panorama internazionale per un ulteriore motivo. Fondata su un federalismo nella sostanza non coercitivo ma liberamente condiviso, la Jugoslavia (a parte la Svizzera, che però fa storia a sé) era ormai l’ultimo caso completamente europeo di realtà multinazionale. Conservava cioè una struttura istituzionale da Europa pre-1918. In questo poteva apparire una sorta di figliastra, un’ereditiera ribelle e un po’ fedifraga di quell’Impero absburgico che era stato per secoli la patria di diversi popoli slavi, prima di franare nella Grande Guerra.

 

Nella seconda metà del Novecento, in un mondo ormai assestato quasi all’unanimità sul principio dello Stato nazionale nelle sue aree sviluppate, la Jugoslavia si chiamava fuori per così dire dalla corrente della storia. Tirava dritta per il suo sogno multietnico e multiculturale. Coltivato all’ombra di un governo che amava prodursi in estrose ingegnerie sociali e, soprattutto, si era sempre fatto rispettare all’estero.

 

Però, però. La realtà non aveva mai smesso di correre parallela al sogno, anzi lo aveva divorato in porzioni sempre più estese e consistenti. Piano piano risultava chiaro che il Paese era stato tenuto insieme principalmente da due elementi ed entrambi si erano rivelati fallimentari. Specie dopo la morte del condottiero che si faceva chiamare Tito, colui che aveva guidato il Paese alla vittoria durante la guerra.

 

Il primo elemento era l’ideologia comunista. La sua applicazione jugoslava, in realtà, presentava assai meno punti di distacco dal modello sovietico rispetto a quanto proclamato dai vertici dello Stato. Oppressione delle libertà civili e negazione di quelle politiche, disprezzo per i diritti umani erano componenti integranti del socialismo reale in Jugoslavia non meno che altrove. E come dappertutto, la partita con il capitalismo liberale anche lì fu persa dal comunismo sul terreno del benessere procurato alle rispettive società, nel lungo periodo.

 

Il secondo fattore, invece, era rappresentato da un curioso esperimento di nazionalismo sovranazionale. È attraverso di esso che Tito aveva cercato sin dall’inizio di contenere le spinte centrifughe, provenienti dalle singole parti nazionali del composito agglomerato jugoslavo.

 

La distruzione dello Stato degli slavi del Sud ha origine dalla combinazione di questi due fallimenti. Dal fatto che comunismo e nazionalismo “dall’alto”, più che agenti di coesione, si sono dimostrati alla lunga agenti di compressione della società. E la società alla fine è esplosa.

 

È stato un esempio eccellente di come ogni realtà sociale complessa e stratificata, a maggior ragione se nazionalmente plurale, non possa fare a meno di una cornice politica garante di libertà, se il fine è uno sviluppo rispettoso di tutte le sue componenti identitarie. Non può fare a meno cioè della democrazia.

 

Ecco perché il sogno chiamato Jugoslavia è andato in frantumi. E perché le sue schegge continuano a far sanguinare il fianco sudorientale dell’Europa.

 

Lo illumina in questi mesi il percorso verso l’indipendenza seguito dal Kosovo. Un percorso ormai tracciato e irreversibile, secondo le dichiarazioni di tutti i maggiori attori internazionali – esclusa la Russia. La regione disperatamente cara alle memorie patriottiche serbe, ma abitata al 90% da una maggioranza albanese, potrebbe ottenere presto l’autonomia. Pochi si preoccupano della sorte che toccherà a quel punto alla minoranza serba del territorio. E ancora meno coloro che si interrogano sugli effetti a catena che l’evento potrebbe innescare. I serbi di Bosnia potrebbero reclamare a loro volta l’indipendenza e l’unione alla Serbia. E così gli albanesi della Macedonia nei confronti dell’Albania.

 

Sarebbe l’esausta ripetizione di uno spettacolo che va in scena da quasi duecento anni a intervalli più o meno regolari. L’affermazione della logica mononazionale in regioni etnicamente miste che per costituzione non la possono tollerare.

 

Se vogliamo trovare una morale alla storia, è questa. Ciclicamente e tragicamente i popoli balcanici sembrano destinati, loro malgrado, a ricordare a tutta l’Europa una lezione basilare. Che ogni sogno di integrazione e convivenza si trasforma fatalmente in un incubo se non contempla la democrazia.

Patrick Karlsen

  

 

 

 

 


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