Fenomeno Lega: a scuola di educazione politica
A conti fatti, è ovviamente la Lega. La Lega che ha vinto al nord in dimensioni strepitose, largamente impreviste dagli osservatori e dagli attori della politica. Che in metà della Lombardia e del Veneto, vale a dire nel centro nevralgico e propulsore del Paese, ha superato da sola il numero di voti raccolti da Forza Italia e Alleanza Nazionale fusi nel Popolo della Libertà. E la vittoria di chi ha stravinto al nord ha un significato che va molto oltre l’ambito geografico in cui è circoscritta. Ha un significato politico generale, nazionale: evidentemente, chi ha vinto al nord ha vinto le elezioni.
Dietro a questo trionfo, sia gli alleati sia gli avversari della Lega possono leggere segnali e avvertimenti a volontà. Possono e dovrebbero. Infatti, se è vero che l’Italia soffre e sta male (ed è vero), il partito di Bossi in questo momento è il suo megafono. L’amplificatore e il simbolo dell’enorme quantità di malessere, disagi, insofferenze che affligge non solo il nord ma tutta l’Italia presa insieme. Perché se c’è una cosa che la Lega catalizza e rappresenta del nord, e solo del nord, è la voglia di reagire. Laddove il mezzogiorno, umiliato, drenato di risorse e prospettive, non per caso si è dimostrato pure vuoto di fantasia politica: incapace di inventarsi uno strumento di protesta autoctono, analogo a quello riprodotto dalla Lega da Bologna in su.
Cominciamo dai segnali. Il primo dato che va tenuto presente è che la Lega non è un partito mediatico. Niente a che vedere con il medium e i messaggi del fare politica formato mediaset-berlusconiano: per lo meno di quello doc, nella sua versione originaria. Niente pubblicità di massa, nessuna teleconsolazione di plastica, no all’idea neopopulista del consenso da inseguire e misurarsi in termini di audience. L’appartenenza sulla quale si fonda e di cui si alimenta la Lega non è un’appartenenza virtuale, catodica. Quella che la supporta e vi si rispecchia non è una comunità immaginata in grazia della televisione. In una parola, la Lega non è uno spot.
Al contrario: è una cosa vera, è un corpo vivo e sensibile. Frustrazione e fatica. Sagre e volantinaggio. Fabbrica e sezione. È piuttosto, dal punto di vista dell’organizzazione e della metodologia politica, la rivincita di quel che fu il partito di massa. Con i suoi fitti reticolati sociali e relazionali, le sue capillari articolazioni di provincia. Con la sua presenza sul territorio: ben visibile, solida, rassicurante.
Una riedizione del vecchio partito-campanile. Ma attenzione, proprio qui sta la sua modernità. Perché il modo più corretto di interpretarla è come una delle reazioni fisiologiche dal basso delle realtà locali, aggredite dallo strapotere invisibile, ma schiacciante e omologante dei flussi della politica e dell’economia globalizzate.
Non segue traiettorie passatiste, non è una capriola all’indietro nella grammatica e nel costume della politica italiana, bensì alleva in grembo semi di novità, aneliti sperimentali. In sintonia con le tendenze culturali e sociali dell’Europa avanzata, sempre più aperte a una valorizzazione del “locale” e del “piccolo”, capta sismicamente le onde trasmesse dai territori che si scompongono e riorganizzano per effetto della loro globale messa in rete. Capta, e codifica. Dà a loro una voce e un senso.
Proprio per questo motivo, essendo forse quanto di più moderno offra al momento la scena politica italiana, la Lega è anche il partito più giovane. Più giovane nei militanti di base, più giovane per le caratteristiche anagrafiche degli eletti, più giovane come rappresentanza sociale e bacino elettorale.
Nell’insieme, canalizza spinta all’innovazione e protesta. Rigetto del centro, della politica romana giudicata inefficiente e corrotta, ma anche senso civico e aspirazione a una qualità di vita su standard europei. Culturalmente, la formula che la esprime resta conservatrice: le sue posizioni sull’immigrazione e sui temi etici parlano chiaro. Ma politicamente, non lo è affatto. Conservatore semmai è girare la testa dall’altra parte, ignorare le domande che la Lega intercetta, comprimerle con parole d’ordine e immaginari che si sono rivelati superati perché fallimentari sul piano del consenso.
Un atteggiamento conservatore e perdente che alla lunga minaccia di diventare anche disgregante dal punto di vista della tenuta unitaria del Paese. Paradossalmente, chi mette più a rischio l’unità nazionale oggi sono proprio i partiti che a voce ne fanno un feticcio. Un alibi reazionario per nascondere il proprio smarrimento, il proprio deficit di comprensione e progettazione.
E questo è l’avvertimento. Per il solo fatto di lanciarlo senza prenderlo troppo sul serio lei stessa, alla Lega andrebbe detto grazie. Vedremo se la politica italiana ha ancora qualcuno di così beneducato. E intelligente.
Patrick Karlsen