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Essere di sinistra, oggi, in Italia

 |  Redazione Sconfini

Alcuni mesi fa Help! ha ospitato un intervento di Gianfranco Gambassini, che ha esposto quelli che a suo parere sono, o dovrebbero essere, i valori, le caratteristiche, i contenuti dell’essere oggi di destra. Questa volta abbiamo chiesto ad un altro protagonista storico della vita politica regionale, Stelio Spadaro dei Ds, di accompagnarci nel campo idealmente opposto, alla ricerca dei motivi e delle ragioni della sinistra.

 

Prima di dedicarci al generale, uno sguardo al particolare. Lei com’è diventato di sinistra?

“Già al liceo classico ero stato affascinato da temi filosofici, e “catturato” dalla filosofia di Locke e di Kant: un campo che ho approfondito all’università dove ho seguito, a Trieste, i corsi di storia e filosofia. Praticamente si può dire che il mio passaggio a sinistra venga dalla lettura dei grandi testi dell’Illuminismo. È quella la mia matrice culturale: l’autonomia della ragione individuale, il Kant dell’autonomia morale dell’individuo precedente e più forte di ogni cosa, per cui anche l’esistenza o meno di Dio diventa questione ininfluente. Temi sempre d’attualità, strade ancora e sempre da battere, se è vero che un intellettuale come Tzvetan Todorov ha appena auspicato, per il nostro tempo, un “Illuminismo prossimo venturo”. Di qui insomma discende molta della mia formazione: il mio ateismo, la mia fiducia nell’opera umana come fattore di avanzamento, l’attaccamento al concetto di tolleranza. E poi l’idea più importante di tutte, che sta al centro del quadro: l’idea di progresso. Della cui consistenza reale ho preso atto grazie agli studi di Marino Berengo sulla campagna veneta, sulle sue condizioni di vita prima e dopo la stagione delle riforme: il vaiolo debellato, l’evoluzione delle tecniche di lavoro, la fame a poco a poco sconfitta. È la prova della possibilità del cambiamento, della concretezza del progresso”.

 

Per Pasolini – semplificando – un progresso senza valori s’inaridiva in sviluppo. Quali valori ha la sua idea di progresso?

“L’eguaglianza è senz’altro uno di questi valori. Non certo un’eguaglianza di tipo biologico. Ho ben presente, in questo senso, il dibattito tra Calvino e gli umanisti italiani: la predestinazione, la natura del male, ma sullo sfondo la cruciale questione della salvezza ottenibile da chiunque mediante gli sforzi propri, e ad uguali condizioni di partenza. Le radici della cultura moderna europea affondano qui. Perciò la recente discussione sulle radici cristiane d’Europa mi è parsa parziale, monca, perché dimentica della tradizione illuminista e razionalista, senza la quale davvero non riusciamo a comprendere la fisionomia attuale dell’Europa”.

 

Un conto è evidenziare le radici anche cristiane dell’Illuminismo; un altro è attribuire al cristianesimo il ruolo di matrice univoca della cultura europea…

“E proprio per di qui passa una distinzione importante tra conservatori e progressisti. Far valere l’autonomia dell’individuo, far valere il significato della razionalità, che non è la razionalità giacobina, presunta depositaria di una verità assoluta che ha seminato disastri ovunque abbia ispirato il potere. Ragione vuol dire insistere sulla capacità umana di non rassegnarsi, di lottare per il cambiamento”.

 

La sua insistenza sul valore dell’azione individuale è in netto contrasto con l’immagine polemica che oggi, in Italia, una certa destra ama dare della sinistra. È facile, infatti, sentire la destra dipingersi come la altpaladina delle libertà individuali, di contro a una sinistra cui si addebitano residui mal (o mai) smaltiti di statalismo e collettivismo.

“Sono dell’idea che queste osservazioni devono far riflettere, non si possono liquidare con sufficienza, perché puntano il dito su deficienze e contraddizioni che hanno effettivamente trovato spazio, e per lungo tempo, nel bagaglio culturale della sinistra. Pensiamo soltanto alle ambiguità del concetto di volontà generale; al rischio sempre latente di una “scomparsa” degli individui, di fronte alle pretese e alle astrazioni dell’artificialismo politico. Certe acquisizioni del liberalismo hanno faticato ad imporsi a sinistra: il confronto fra progresso e individuo, la conciliazione fra individuo e democrazia. Un personaggio, pur importantissimo della storia d’Italia, Enrico Berlinguer, così radicalmente inserito nella dimensione del comunismo storico, appena nel 1980 giunse a sottolineare il valore universale della democrazia, prima invece vista, nella teoria e nella pratica del Pci, solo come ponte, strumento in funzione del socialismo a venire. L’errore di Marx – che io ho incontrato all’università, mediato dalla pagina di un marxista “laico” come Antonio Labriola, e che resta acuto analista delle tendenze del capitalismo, seppure meno felice come ideologo e del tutto infelice come profeta – è stato proprio questo. E cioè ritenere che il problema fondamentale fosse il controllo dello Stato da parte di una classe – intesa hegelianamente come categoria, non come dato empirico – a scapito delle altre, e a scapito della democrazia politica. Tenere uniti progresso e diritti individuali è, viceversa, la questione essenziale di una società che si voglia proteggere dai lati deteriori del capitalismo”.

 

Da qualche decennio però è in atto una palese deformazione della teoria delle libertà individuali, che la retorica liberista esalta e considera in astratto, a danno delle esigenze della convivenza civile.

“La sfida che pone la concezione liberista della società è appunto la società senza regole, terra di rapina per il più furbo, per il più potente, per la pistola più veloce. Mentre la democrazia vuol dire regole, vuol dire eguaglianza di opportunità, è una metodologia che impone rispetto”.

 

Quindi, libertà all’interno di un sistema di norme condivise, e non licenza per chi ha di più di colpire i diritti di chi ha meno…

“Questa oggi è precisamente la differenza più evidente, secondo me, tra la sinistra e la destra. E ce n’è un’altra che si gioca sul terreno del lavoro, sulla ricerca scientifica e tecnologica al servizio di una società democratica. Anche i faraoni dell’antico Egitto disponevano di una conoscenza meccanica sofisticata, ma la impiegavano ad uso e beneficio della loro casta. Il lavoro, la scienza, la ricerca scientifica applicata alla tecnologia devono preservare la loro impronta democratica, essere coordinati da un’ideale di progresso generale. Pensare l’individuo distaccato, o decisamente contrapposto rispetto alla società, significa andare incontro ad una società di tipo tradizionalmente reazionario, che poi, come è sempre accaduto in passato, arriverebbe a motivare le disuguaglianze addirittura in termini metafisici; significa riproporre un darwinismo sociale, che a differenza di quello naturale, è frutto di ben precise e intenzionali coercizioni”.

 

Non le sembra che in Europa, proprio su tali questioni, ci sia stato un cedimento di fronte a modelli sociali e culturali importati da oltre Atlantico?

“Più che un cedimento, mi sembra un logico effetto della crisi derivata dal fallimento del comunismo storico. Il fatto è che il capitalismo in sé produce ingiustizie, secondo un destino che esso ha inscritto nella legge basilare che lo ispira e lo guida, la legge del profitto. Con il crollo del comunismo si è formato un vuoto di risposte. Quella comunista era una delle due risposte al capitalismo (l’altra, feconda, è quella data dalle socialdemocrazie). Ma, ripeto, quel crollo era logico. Non solo l’Urss – con tutto il suo sistema di politica e di geografia – si è dimostrata incapace di fornire risposte, ma anche i partiti comunisti dell’Europa occidentale sono stati incapaci di vedere per tempo i guasti e le tragedie che il comunismo storico produceva. Anche noi, che stavamo al di qua della cortina di ferro, non siamo stati in grado di comprendere la dimensione della crisi, e ciò segnala un ritardo politico e culturale irrimediabile. Al contempo, negli ultimi vent’anni, la socialdemocrazia – pur forte della sua luminosa tradizione – non è riuscita a dar vita ad un progetto di respiro europeo, e ha subito suo malgrado i contraccolpi dello scontro ideologico che si è aperto. Tuttora è arenata su faticose ricerche di una “terza via”, che possa cogliere il nuovo. Non sono state elaborate, così, le categorie necessarie ad afferrare il fenomeno della globalizzazione e le leggi d’interdipendenza che essa implica. Faccio un esempio: al sorgere impetuoso del capitalismo, Marx non è stato fermo a studiare sulle rive del Reno ma si è spinto a Londra, che costituiva il cuore del cambiamento; più tardi, benché chiuso in cella dal fascismo, Gramsci ha avuto la lungimiranza di guardare all’America per analizzare l’organizzazione fordista del lavoro. Oggi la sinistra dovrebbe ritrovare la stessa prontezza, la stessa lucidità; non adeguarsi, non subire, ma capire per rispondere”.

Patrick Karlsen

 


In collaborazione con Help!

 

 


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