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1950-1980: interventi di edilizia e cantieri a Trieste

 |  Redazione Sconfini

Dagli anni Cinquanta l’elemento portante dell’edilizia triestina non è stato l’investitore privato ma quello pubblico: ciò è stato determinato dalla mancanza di capitali ed interessi privati ed anche dal costante decremento demografico che dal secondo dopoguerra non ha avuto battute d’arresto. Gli investimenti pubblici hanno portato alla costruzione di nuovi rioni popolari periferici quali Borgo S. Sergio, Borgo S. Nazario, Rozzol Melara e Altura, che hanno dato casa ai circa 80.000 profughi istriano-dalmati che in qualche modo hanno limitato questo decremento.

 

Borgo S. Sergio – afferma l’amministratore dell’impresa di costruzioni Scarcia&Rossi, Dario Stocchisi è rivelato un progetto a dimensione d’uomo, mentre Melara è nato da un delirio urbanistico che ipotizzava un aumento demografico notevole e si basava sulla teoria del “big bang”, cioè voleva essere il nucleo di un nuovo centro cittadino. Ciò ha portato al trasferimento dei ceti meno abbienti dagli edifici, che necessitavano un restauro, di Città Vecchia all’estrema periferia con i tipici problemi di degrado, anche sociale, che le periferie poco asservite generano in tutte le città”.

 

“L’esperienza di Borgo S. Sergio, progetto che rientra nel programma promosso dal Comitato di Coordinamento dell’Edilizia Popolare affidato all’architetto E.N. Rogers e all’ingegnere capo A. Badalotti del Comune di Trieste, è sicuramente buona – spiega l’architetto Paolo Vrabec – al contrario di Rozzol Melara. Nel primo caso le intuizioni dei progettisti, nel rapporto tra la funzione delle abitazioni ed il territorio, sono state ottime mentre nel secondo, a distanza di anni, queste intuizioni sono risultate contraddittorie”. “In realtà – aggiunge – la prima idea per la costruzione di Melara era di tipo molto tradizionale, con le classiche casette a schiera, ma poi purtroppo è stato scelto dal committente e dai progettisti un modello abitativo piuttosto diverso: il quadrilatero. Borgo S. Sergio è stato concepito con l’idea di creare un complesso residenziale a servizio della nascente zona industriale: è una tipologia architettonica con un miglior rapporto con le aree verdi ed il territorio circostante. Il quadrilatero di Melara, invece, è una struttura molto visibile ed ha segnato una frattura tra l’edificio ed il suo contesto; per quanto riguarda il punto di vista sociale, ha portato alla crisi di quel modello abitativo, denotandolo come concentrazione di disagio relazionale. La città ha purtroppo un grande difetto: non può contare su grandi aree dove insediare zone abitative, si preferisce demolire e ricostruire”.

 

Mentre questi rioni erano in via di costruzione si è cominciato a svuotare il centro storico, che solamente in epoca recente è stato recuperato e riabitato. Trieste è stata per cinquant’anni una delle poche città che ha convissuto con il degrado totale del suo centro storico: è la dimostrazione che la città e la sua cittadinanza non sono mai riusciti ad esprimere un progetto di sviluppo socio-demografico per il futuro, ma hanno espresso solamente opere contingenti.

 

Dal ’54 la nuova amministrazione prevede una serie di appalti pubblici per la ricostruzione delle stazioaltni ferroviarie del territorio, l’attuazione del bacino di carenaggio dell’Arsenale Triestino S. Marco, la costruzione della fognatura e di tratti della strada provinciale verso Muggia. Importante è inoltre l’edificazione di nuove scuole ed asili, il completamento del centro edilizio universitario e la costruzione della piscina Bruno Bianchi, di significativo impatto per la cittadinanza. Nel ’55 viene restaurata la Stazione Marittima in occasione della ripresa della linea di navigazione Trieste-New York. Decine di migliaia di persone attendono in piazza dell’Unità d’Italia il ritorno della nave Vulcania, dopo quindici anni d’assenza.

 

“Gli anni del boom – racconta Dario Stocchi – rappresentano ancora una volta l’occasione che la città ha per riprogettarsi e proiettarsi nel futuro. Anche questa opportunità però viene mancata ed inizia in sordina un declino imprenditoriale ed economico generale. Ma nel 1962 Trieste diventa capoluogo del Friuli Venezia Giulia dando così il via a prestigiosi progetti come ad esempio la costruzione del Centro Internazionale di Fisica Teorica di Miramare e l’Ospedale di Cattinara”.

 

Nel 1965 viene adottato il nuovo piano regolatore e si avvia un grande sviluppo edilizio nei rioni adiacenti al porto industriale. Nel porto stesso si realizzano lo Scalo legnami ed un nuovo silos granario. Entra in funzione anche il terminale dell’oleodotto transalpino Trieste-Ingolstadt per rifornire la Germania meridionale.

 

Negli anni Settanta si concludono i lavori, strategici, della costruzione del Molo Settimo. Sono gli anni in cui vengono realizzate la ristrutturazione totale del palazzo Rittmeyer sede del conservatorio Tartini, la ristrutturazione del complesso scolastico di piazza Hortis e di via Kandler, la costruzione della scuola Suvich di via dei Cunicoli, la ristrutturazione del Museo Revoltella. Nei successivi anni Ottanta viene costruito lo stadio Nereo Rocco, definito dal geometra Dario Stocchi come “una cattedrale nel deserto, date la capienza e le sue potenzialità più adatte ad una squadra di calcio di serie A, ma è sicuramente lo stadio più bello della regione e tra i più notevoli in Italia”.

 

Area tra le più pregiate e appetibili da sempre è il Porto Vecchio, che a causa degli interessi di pochi ha visto negati tutta una serie di progetti molto interessanti. Basti pensare che neanche le Generali, tra le potenze economico-finanziarie più rilevanti a livello nazionale ed internazionale, sono riuscite a realizzare il proprio centro direzionale in una parte di esso. Si è preferito lasciare gli edifici e gli spazi in assoluta decadenza piuttosto che creare un’area di sviluppo economico ed occupazionale. Dopo la sua costruzione ed il suo parziale utilizzo si è capito che l’area del Porto Vecchio non era sufficiente per le attività che venivano svolte: si crea così un nuovo insediamento, successivamente battezzato Porto Nuovo. Sono sorti però dei problemi nei collegamenti tra i due ed inoltre quello vecchio non riusciva a reggere la concorrenza offerta dal nuovo. È così che il Porto Vecchio si è avviato ad una lenta decadenza.

 

“Questa forma di immobilismo e la non realizzazione dei progetti – commenta l’architetto Paolo Vrabec – hanno permesso di conservare in modo statico le strutture ottocentesche del Porto Vecchio per poterne decidere ora la migliore destinazione. Questa è una decisione che va presa dall’Autorità portuale assieme ad un piano regolatore che comprenda tutto il porto poiché ci sono attività in atto che vanno tenute in considerazione all’interno del tessuto urbano e delle sue dinamiche contemporanee”. “Alla fine della Seconda Guerra mondiale – aggiunge Dario Stocchi – la divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti ha determinato il declino costante del porto di Trieste, favorito anche dall’incapacità dei triestini di trovare un accordo che permettesse la realizzazione delle opere di riconversione e il riutilizzo delle aree portuali. In questo lasso di tempo, tuttavia, Trieste ha avuto la capacità di generare degli obbrobri architettonici: Cattinara, Rozzol Melara, Altura, e il Santuario di Monte Grisa, ma soprattutto ha messo in mostra la sua incapacità a concludere un qualsiasi progetto nel Porto Vecchio”.

 

“L’essenza di una città – conclude l’architetto Paolo Vrabec – è scritta nella sua storia e nel suo rapporto con il territorio. Per il futuro non si può fare una sola proposta o indicare una sola soluzione, ma le proposte sono molteplici perché la città non è una monocultura ma un insieme di attività. Da sempre si cerca di conciliare più attività insieme, anche se possono risultare incompatibili, perché una città può e deve vivere di arte, cultura, industria e commercio allo stesso tempo”.

Martina Pluda

 


In collaborazione con Help!

 

 


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