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Una violenza senza fine: la soluzione è l'autodifesa?

 |  Redazione Sconfini
Ancora una volta i numeri sono lo specchio di una situazione inquietante, ripugnante, abnorme, purtroppo reale ed ancor più schifosamente attuale. La violenza sulle donne si manifesta in almeno un miliardo di casi nel mondo: in pratica una donna su tre viene molestata, picchiata, stuprata, mutilata, assassinata.


La violenza sulle donne è parte di una “non cultura globale” che nega alle donne pari opportunità e pari diritti e legittima la violenta appropriazione del loro corpo per gratificazione individuale o scopi indecenti. È una delle forme di violazione dei diritti umani più diffusa ed occulta nell’intero pianeta, che colpisce donne d’ogni classe sociale, razza, religione ed età. Il disgusto che provo nel leggere queste cifre non è solo dato dal fatto di essere donna, ma nasce nella mente sana di una persona libera che ha diritto alla sicurezza ed alla propria dignità e così come vuole che la propria integrità fisica e psicologica sia rispettata, rispetta quella di ogni altro essere umano.


Chi commette violenza non può essere un individuo libero, bensì colui che è oppresso dalla sua stessa inferiorità e che per affermare una qualche sorta di supremazia ricorre alla violenza. Chi sottomette una terza persona ha paura di essere dominato, anche da una situazione che non vuole accettare. Questo è l’esempio dello stalking, che spesso avviene quando uno dei due partner non accetta il rifiuto dell’altro e non vuole affrontare il distacco, diventando perciò opprimente nei comportamenti e tormentando l’ex-compagna/o.


È spesso a causa di questa ossessione per un’altra persona che la violenza passa da psicologica a fisica. Infatti il più elevato numero di casi deriva da un qualunque tipo di rapporto intercorso tra le due persone: si tratta di violenza perpetrata quasi sempre per mano del marito, del fidanzato, di un familiare o di un amico. Secondo un’indagine dell’Istat, nel nostro Paese sono i partner i responsabili della quota più elevata di tutte le forme di violenza fisica rilevate. I partner o ex-partner sono responsabili in misura maggiore anche di alcuni tipi di violenza altsessuale come lo stupro nonché i rapporti sessuali non desiderati, ma subiti per paura delle conseguenze: il 69,7% degli stupri è opera di partner, il 17,4% di un conoscente.


E c’è da rabbrividire quando il Consiglio d’Europa dichiara che la violenza consumata dietro le porte domestiche rappresenta, per le donne tra i 16 e i 44 anni, la principale causa di morte e di invalidità; più del cancro o degli incidenti automobilistici. In Italia per quanto riguarda la violenza domestica sono stimate in 6 milioni 743mila le donne tra i 16 ed i 70 anni vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della vita. E ancora: 5 milioni di donne hanno subito violenze sessuali (23,7%), quasi 4 milioni violenze fisiche (18,8%) e circa 1 milione ha subito stupri o tentati stupri (4,8%).


Ma com’è possibile che alcune forme di violenza sessuale non siano riconosciute come un crimine e che in molti Paesi lo stupro in famiglia non sia considerato reato? È veramente assurdo pensare che solo 44 Paesi hanno una legislazione contro la violenza domestica. Parte della legislazione è anche l’educazione. Molto tristemente i giovanissimi tendono a credere che l’interazione sociale passi attraverso l’identità sessuale, perché tutto quello che riguarda il dialogo e le relazioni non avviene più attraverso il rapporto diretto, ma è mediato dalla tecnologia che anestetizza e falsifica la realtà.


È altrettanto pazzesco che tantissime donne spesso non si rendano conto di essere vittime di violenza e considerino “normali” taluni comportamenti, pertanto non denunciandoli alle autorità competenti. Solo il 17,6% delle donne denuncia la violenza fisica, sessuale o lo stupro subiti in famiglia; per il 44% si è trattato semplicemente di “qualcosa di sbagliato”, mentre per il 36%, solo di “qualcosa che è accaduto”. La mancata denuncia è spesso dovuta ad una struttura sociale che colpevolizza la donna, facendola sentire meritevole di essere punita. Questo è ad esempio il modello della famiglia patriarcale, estremizzata nelle società più arretrate, ma ancora ben presente in quelle più avanzate.


Per non parlare poi delle conseguenze delle violenze, che determinano l’insicurezza di agire. Si tratta di danni molto gravi ed in molti casi addirittura irreversibili. In quasi la metà degli episodi le donne hanno sofferto di perdita di fiducia e autostima, sensazione di impotenza, disturbi del sonno, ansia, depressione, difficoltà di concentrazione, idee di suicidio e autolesionismo.


Così come l’apartheid è formalmente finito da poco, la condizione di inferiorità, che il genere femminile subisce nella grande maggioranza del pianeta, non è ancora giunta alla sua fine. Questi temi, nelle agende dei governi, sono quasi assenti nonostante riguardino più del 50% della popolazione mondiale. Non stiamo parlando di una minoranza etnica o di un gruppo tribale, ma dell’esercizio di un potere arbitrario ed arrogante per sottomettere chi non ha ancora preso coscienza della propria autonomia decisionale. Questa situazione potrà arrivare ad una svolta positiva solo quando le donne raggiungeranno quelle posizioni di rilievo sociale ed economico pari e/o superiori a quelle degli uomini, in un rapporto percentuale equanime. Ancora oggi, quando si parla di pari opportunità, nella maggioranza dei Paesi che hanno una legislazione adeguata sull’argomento, le donne vivono una realtà tutelata ma subalterna.


La soluzione, però, non è l'autodifesa. Il futuro sta in quelle giovani generazioni che sono state educate al loro valore intrinseco, al rispetto reciproco e dell’individuo. Non sarà cosa facile ritornare ad un modello equilibrato, un modello in cui i rapporti passano anche attraverso la mente delle persone. Per ogni passo avanti se ne fanno tre indietro: l’immagine onnipresente del corpo femminile, la mercificazione di questo e l’idea che i modelli proposti siano quelli a cui tendere.

 

Martina Pluda

 


In collaborazione con Help!


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