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Verso la fine del precariato: 5 idee per tornare a far sperare una generazione

 |  Redazione Sconfini

Con il recente appello addirittura di Papa Benedetto XVI e il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la piaga del precariato, che sta rovinando un'intera generazione di lavoratori e di famiglie italiane, è tornata d'attualità. Le forme di protesta più o meno spontanee non sono servite e non serviranno praticamente a nulla e questo per una serie di fattori legati a doppio filo con l'infido sistema di potere che monoliticamente caratterizza la politica e i sindacati del Paese e le leggi Treu e Biagi in tema di lavoro.

1. Tra i primi beneficiari dell'attuale situazione italiana sul lavoro sono i partiti politici. Qualora ci fosse il bisogno di distinguerli ancora, deve essere ricordato che dal centro sinistra provengono strali generici e populistici contro il precariato e la "legge Biagi" ma nello stesso tempo non si mettono in discussione neppure lontanamente privilegi e vantaggi dei lavoratori (elettori) stabili che da decadi intascano stipendi, godono di ferie, di mesi di malattia ogni anno e quando capita di mesi di infortuni o anni di aspettativa. Dall'altro lato, il centro destra, paladino del liberismo e degli interessi di industriali, capitani d'azienda e imprenditori che chiama precariato in un altro modo: flessibilità. Ovviamvignetta, precariato, lavoroente questa flessibilità è a senso unico, cioè poggia sulla testa dei soli lavoratori, mentre i datori di lavoro hanno quasi carta bianca e possono disporre di carne da macello a piacimento. Il vantaggio dei partiti consiste proprio nel poter agitare questa o quella parte del mondo del lavoro per catturare voti e consensi in momenti propizi (elezioni) per poi sbattersene in maniera assoluta una volta chiusi i seggi.

2. Tra i secondi beneficiari del "sistema lavoro" attuale in Italia ci sono i sindacati, le cui conquiste e il cui valore socioeconomico, culturale e politico negli ultimi 100/150 anni è stato davvero eccezionale. Tuttavia in questo momento le organizzazioni sindacali rappresentano solamente un ostacolo drammatico per la generazione che si è affacciata al lavoro negli ultimi 10/15 anni e per quelle che si affacceranno per i prossimi 20 anni almeno se le cose non cambieranno presto. I motivi sono due: da un lato i sindacati detengono il potere (le tessere e i soldi degli iscritti) solo fino a quando potranno sedersi al tavolo dei potenti e contribuire a redigere i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL); dall'altro, per pura e semplice autodifesa e per evitare di essere seppelliti con tutti i loro privilegi, i sindacati hanno badato esclusivamente agli interessi di chi un lavoro "fisso" già ce l'ha e può in qualche modo iscriversi o comunque essere inserito all'interno dei CCNL. Nessun tipo di rappresentanza o organizzazione sindacale ha mai difeso e aiutato gli atipici ovvero i precari. Anzi sono i sindacati stessi tra i protagonisti principali (e ci sguazzano non poco) dell'andazzo secondo cui i benefit e i diritti dei lavoratori subordinati debbano essere pagati dai precari.

3. I terzi beneficiari del sistema sono ovviamente gli imprenditori o meglio, certi imprenditori e certe realtà imprenditoriali. Il Paese si regge sul loro lavoro (e di quello dei lavoratori), sulle loro iniziative, sulla loro creatività e sulle loro idee e per questo rappresentano sempre e comunque una categoria estremamente importante per l'Italia. Il problema è che qualcuno - forse troppi e sempre di più - hanno iniziato a leggere la promessa di flessibilità come la possibilità legale di creare una categoria di schiavi moderni per poter risparmiare almeno in piccola parte sui mostruosi costi richiesti in primis dallo stato e dagli enti locali. Pagare meno i lavoratori, renderli ricattabili attraverso contratti a breve scadenza, negar loro ogni tutela in termini di malattia, permessi, ferie, infortuni, poter disporre di loro "a chiamata" anche all'ultimo minuto sono meccanismi che puzzano tanto di compromesso tra Stato e imprenditoria. Lo Stato continua a papparsi cifre iperboliche dal mondo produttivo, che però in cambio può spendere molto meno nella quotidianità, in termini di costi di gestione ma anche di tasse sul lavoro. Il tutto sulle spalle di lavoratori diventati così flessibili e ricattabili da non avere neppure coscienza della situazione.

Cosa proporre allora concretamente per salvare una generazione che ora non può pianificare serenamente il futuro e in futuro non avrà neanche una pensione sufficiente a sopravvivere (altro tema scottante destinato a diventare fonte di lotte di piazza nei prossimi decenni)?

Il 10 dicembre 2008 si è festeggiato il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani i cui articoli 23 e 24, a dimostrazione del fatto che l'umanità sta facendo passi da gigante (all'indietro) citano così:

Articolo 23
1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione. 
2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.
3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. 
4. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.

Articolo 24
Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite.

E' chiaro che alla luce di queste poche righe, almeno in Italia, milioni di lavoratori tirano a campare con contratti fuori legge, contrari addirittura alla Dichiarazione Universale sui Diritti Umani. Una vera follia.

Chiedere la semplice cancellazione della legge Biagi è pura demagogia: gli imprenditori hanno diritto a chiedere della sana flessibilità ai lavoratori ma ad essa deve corrispondere un valore economico (l'unico in grado di destare attenzione tra gli imprenditori). Ecco quindi in pillole alcune proposte, anche provocatorie, che potrebbero trovare applicazione in un'ipotetica nuova legge quadro sul lavoro che possa sostituire le precedenti.

1. Stabilire per legge che il valore del lavoro prestato da un precario sia riconosciuto economicamente almeno il doppio di un lavoratore stabile. Questo ovviamente per limitare la proliferazione di contratti precari selvaggi e per ripagare della "flessibilità" esagerata richiesta agli atipici. Naturalmente, per rispettare al Dichiarazione Universale dei Diritti Umani - diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro - anche i lavoratori stabili possono chiedere di diventare precari per guadagnare il doppio. Questo porterebbe finalmente ad una flessibilità biunivoca, incentiverebbe la produttività anche nel settore pubblico e realizzerebbe una sana rivoluzione nel mondo del lavoro attraverso la creazione di professionisti del precariato per scelta, probabilmente molto richiesti sul mercato.

2. Estendere i diritti di ferie, infortunio, maternità e malattia a tutti, nel periodo contrattuale, anche se gli accordi di lavoro hanno la durata di una settimana, o anche di un giorno.

3. Messa fuori legge dei contratti cosiddetti a progetto (Co.Co.Pro) in tutti i settori o per tutte le aziende che non siano in grado di dimostrare la reale esistenza di un progetto che il lavoratore inizi e concluda nel tempo stabilito.

4. Estendere anche ai precari che abbiano lavorato almeno 18 degli ultimi 24 mesi ammortizzatori sociali come la cassa integrazione e l'assegno di disoccupazione.

5. Promuovere la creazione di un sindacato unitario per i precari che possa rappresentare in parallelo ai sindacati confederali i lavoratori "atipici" in sede di contrattazione, facendo sempre presente a chi deve decidere, il principio che il lavoro precario vale doppio.

Quanti sono i precari in Italia? Sono più di 4 milioni gli atipici attualmente occupati. E sono nei guai perché la crisi economica che nel 2009 taglierà almeno un milione di posti lavoro colpirà per primi proprio loro, perché non rinnovare i loro contratti è quanto di più facile ci sia. Tecnicamente, infatti, non si tratta di licenziamenti, ma di mancati rinnovi...

- Circa 800 mila collaboratori a progetto

- 600 mila lavoratori «a somministrazione» (gli interinali)

- 2 milioni e 250 mila lavoratori a tempo determinato

- 125 mila collaboratori occasionali

- 190 mila professionisti con partita Iva, che spesso svolgono attività in una sola azienda, in modo esclusivo, tanto da essere chiamati «finti autonomi».


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