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Tempo di finirla. Anche per noi?

 |  Redazione Sconfini

Qualche tempo fa, l’autorevole settimanale britannico "The Economist” osservava tra il perplesso e l’esasperato la crisi di governo che attanagliava il Belgio da diversi mesi. Un articolo dal titolo piuttosto eloquente, “Tempo di finirla”, faceva da contenitore a una provocazione giornalistica che era insieme una sferzante e lucida analisi storico-politica.

 

In sostanza, diceva l’“Economist”, il Belgio è talmente frammentato politicamente da non riuscire più a produrre un governo che faccia quello che i cittadini giustamente pretendono: governare. E cioè far fronte alle esigenze della contemporaneità guidando il Paese in modo equilibrato, verso lo sviluppo o verso la decadenza in fondo poco importa, purché il viaggio si mantenga senza troppi scossoni.

 

Il Belgio non ha più un governo, o meglio non è più capace di governarsi, constatava l’“Economist”. E allora perché mantenerlo in piedi? Perché ostinarsi a considerare unito un Paese che non lo è più palesemente da molto tempo, anzi non lo è mai stato? Tanto più che per tutti si tratta di un segreto di Pulcinella. Tutti i cosiddetti belgi hanno sempre saputoalt di vivere in un’illusione statuale, una sorta di reality show politico valido finché persiste il senso e soprattutto la voglia di giocare. Il leader autonomista fiammingo e candidato primo ministro Yves Leterme ha molto onestamente ammesso: “I belgi hanno in comune solo il re, la squadra di calcio e alcune birre”.

 

Con precisa coscienza di causa, il settimanale ricordava quali fossero le motivazioni storiche che portarono alla nascita di quel piccolo e artificioso Paese nel 1831. Era opportuno creare uno Stato cuscinetto per arginare l’eventuale risorgenza di crisi isteriche da parte della Francia postrivoluzionaria e postnapoleonica. In aggiunta, prendendo due piccioni con una fava, si proteggevano le popolazioni del luogo dalle discriminazioni dei governanti olandesi.

 

Come si vede, ragioni eminentemente pratiche e contingenti. Legate alle necessità politiche del periodo. E assolte dal Belgio con la dignità e la modestia del bravo soldatino. Ma ora? Ora che la missione è compiuta, ed è compiuta da un bel pezzo? Bisogna accettare l’idea, concludeva l’“Economist” con britannico buon senso, che “gli Stati vanno e vengono”. Non sono creature divine e assolute, astoriche e atemporali, ma creazioni dell’uomo effimere e fallibili, come tutte esposte al ciclo di nascita e morte. Distruggiamo dunque il Belgio e nessuno ne sentirà la mancanza. Riconosciamo Bruxelles per quello che è già, la capitale anazionale d’Europa, il centro cosmopolita dell’amministrazione e della burocrazia del continente, lasciamo che i fiamminghi si autogovernino in pace, e tutti saranno più contenti.

 

Ora, forse verrà il giorno in cui qualcuno scriverà le medesime cose dell’Italia. E dal medesimo punto di vista funzionalista-utilitario. L’Italia ha origini ottocentesche, è nata trent’anni dopo il Belgio come un ingrandimento del Piemonte realizzato da un genio della diplomazia di nome Cavour, il quale ha sfruttato con maestria le rivalità delle potenze europee del periodo, prima quella franco-inglese contro l’Austria, poi quella prussiana contro la Francia. Attingendo fra l’altro copiose sponsorizzazioni dal gruppo Generali di Trieste, che soffocato dalla concorrenza austro-boema vedeva di buon occhio la creazione in Italia di un mercato unico in cui penetrare. Com’è noto si era fatto lo Stato, ma non si era fatta una nazione: troppe le differenze linguistiche, culturali, antropologiche tra i pezzi regionali messi assieme in questo nuovo patchwork statuale.

 

Dopo il disastro mussoliniano della Seconda guerra mondiale la penisola, tornata a essere la mera espressione geografica di metternichiana memoria, ha mantenuto la sua unità solo perché agli angloamericani che occupavano militarmente il suo territorio conveniva così. Da allora e per tutta la guerra fredda l’Italia ha fatto le funzioni di una bella e grande portaerei atlantica nel Mediterraneo. Ma nel frattempo ha raggiunto un simulacro di unità linguistica grazie a Mike Bongiorno e alla televisione. Caduto il comunismo nel 1989, si poteva ricominciare a lavorare per ridare a questo Paese, i cui cittadini ora più o meno si capivano parlando fra di loro, una sua fisionomia individuale, fondata finalmente su una completa autonomia negli affari interni e una relativa indipendenza in politica estera.

 

Oggi si constata con tristezza che l’unità del Paese è cementata dalla Nazionale di calcio, dalla Ferrari, dalla spina dorsale di una burocrazia spesso fannullona, dalle ramificazioni economiche delle varie mafie e camorre. Al contrario del Belgio non abbiamo neppure la figura di un monarca che incarni la tradizione e le memorie storiche della “nazione”, neppure una marca di birra che ci accomuni nelle gioie e nei dolori. Oggi si constata con una certa curiosità che se sorgesse nel Paese un movimento separatista serio, colto e rigoroso, non carnevalesco e presentabile in Europa, l’“Economist” potrebbe mandare in stampa un copia-incolla del suo articolo sul Belgio. Cambiando soltanto il nome dello Stato con quello dell’Italia. E riciclando perfino il titolo: “Tempo di finirla”.

 Patrick Karlsen

 


In collaborazione con Help!

 

 


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