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Becca Tapert

Pene d’amore: le debolezze del sesso forte

 |  redazionehelp

La rivoluzione sessuale ha sostituito la preoccupazione di sbagliare con la preoccupazione di essere normali.
Augustin Jeanneau (Les risques d’une époque ou le narcissisme du dehors)

Poche cose, in questi ultimi decenni, sono state attaccate e, almeno verbalmente, demolite, come l’identità maschile. E gli uomini, anche quelli che hanno snobbato o respinto le critiche delle donne ne sono stati comunque coinvolti. Cosicché nel maschio si è creato un senso di profonda insicurezza che ha avuto, e tuttora ha, ricadute davvero allarmanti soprattutto sulla sessualità, territorio in cui tradizionalmente la virilità ha vissuto i suoi momenti di maggior gloria. Con l’indesiderato risultato che proprio in questo campo la crisi del cosiddetto “sesso forte” mostra ora le debolezze più inquietanti.
Di fronte ad una sessualità sempre più disinibita ed esigente, preoccupazioni, ansie da prestazione, amletici dubbi si sono moltiplicati in progressione geometrica. E a ricaduta, come un fiume ingrossato dalle piogge, disturbi dell’erezione, eiaculazioni precoci o, più drasticamente, crolli totali del desiderio contagiosi e distruttivi per ogni tipo di relazione. Anche perché quando la sessualità comincia a vacillare il maschio si spaventa tantissimo e, fatalmente, più si spaventa più aumentano le probabilità di nuovi insuccessi, il che molto spesso induce l’errore di pensare che il malfunzionamento sia dovuto solo al sesso e non piuttosto ad una traballante immagine di sé. È vero che talvolta si avanza l’ipotesi che in realtà gli uomini abbiano sempre sofferto di questa vulnerabilità ma che la cultura maschilista abbia mimetizzato il problema sottraendolo consapevolmente e colposamente a valutazioni e giudizi.
In ogni caso, vecchi o nuovi che siano i problemi, non c’è dubbio che l’evento stressante sia stata la cosiddetta “rivoluzione sessuale” e che la crisi si sia innescata nei favolosi anni ’70 in un clima che comunque, nel bene e nel male, ha costretto l’intera società, sia pure tra mille difficoltà e contraddizioni, ad un rapporto più consapevole e soggettivo con la sessualità. Ma una cosa è la coscienza di sé, altro è la resa totale ed incondizionata. Troppi maschi hanno abdicato al ruolo di “veri uomini”, alcuni per sottrarsi all’ira funesta del femminismo, altri per cercare un compromesso innovativo e ristrutturante con l’universo femminile, ma la maggior parte è come se avesse colto l’occasione di abbandonare quella pesante corazza di doveri e responsabilità imposta dalla cultura e dalla società. Hanno così soffocato le potenti spinte del testosterone per diventare teneri e disponibili col paradossale risultato di piacere ancor meno di prima a coloro che con questo cambiamento credevano di assecondare. Le donne, in altre parole, non hanno mai voluto “cuccioli” da coccolare bensì compagni adulti da amare e di cui potersi fidare.
La mente umana commette spesso l’errore di pensare che se una cosa è sbagliata vorrà dire che è giusto il suo contrario. La verità è che c’è una sostanziale differenza tra la forza e la prepotenza, tra la risolutezza e l’arroganza, tra l’aggressività e la determinazione, tra il sesso di rapina e l’erotismo. Ma forse, proprio grazie all’attuale disordine, alle paure, alla confusione e al disorientamento, gli uomini riusciranno a crescere da soli, senza le coccole materne ma anche senza le acide persecuzioni femministe. Per farlo, però, avranno anche bisogno di liberarsi da quel rapporto di morbosa, esagerata ed ossessiva dipendenza che li lega al proprio organo genitale, anatomico o simbolico, amato o odiato che sia.
Oggi il maschio riserva ancora troppa attenzione al proprio pene, forse non per esaltarlo come un tempo ma piuttosto per negarlo e usarlo come capro espiatorio imputandogli sempre più spesso di essere soltanto fonte di guai, fisici e psicologici. Così, sebbene la società abbia ammorbidito la propria impronta maschilista, il pene ha comunque mantenuto la sua centralità sessuale. Non solo domina le alcove ma persino i linguaggi. Nel nostro lessico quotidiano non c’è dubbio che le parole più usate riguardano gli organi genitali e il tempo: senza le parole dei primi e gli argomenti del secondo saremmo muti e disperati.
Che sia una caratteristica storica della cultura attuale è evidente, basti pensare all’Ottocento vittoriano quando era proibito non solo nominare gli organi sessuali ma addirittura la biancheria intima che ne era a contatto. Esisteva allora una castrazione verbale e certamente il linguaggio era melodicamente differente dal nostro. Tuttavia ci sono state grandi civiltà centrate sul pene che vanno aggiunte a quelle dedite alla magnificazione degli organi femminili di cui la cultura mesopotamica è il caso più noto.
Per andare proprio alle origini bisogna far riferimento ad una civiltà, quella dei Natufiani, che risale a circa dieci millenni prima di Cristo. È infatti quella che per prima stabilisce una correlazione tra coito e nascita. Sembra un concetto elementare e scontato per noi ma è invece assolutamente rivoluzionario se si pensa che è stato allora che si è stabilito per la prima volta un rapporto di causa ed effetto tra un evento e un risultato che avviene esattamente nove mesi dopo. Fino a quel momento la nascita era una questione puramente femminile e per lo più la gravidanza era attribuita a spiriti che entravano nel ventre attraverso la ben nota apertura muliebre. Oltre all’indubbio valore paleoscientifico la scoperta dei Natufiani fa letteralmente scoppiare l’esaltazione del pene e l’organo maschile assurge a vero e proprio oggetto sacro con tanto di culto e di ritualistica venerazione. Il nome che ha dominato in questa dimensione è Lingam ed era abituale che le donne ne portassero un’effige appesa al collo come amuleto, solitamente in terracotta. Ed è ancora con i Natufiani che comincia a porsi il problema della paternità e che l’uomo acquista una posizione nello sviluppo generazionale. È il periodo in cui esplodono le figure verticali proprio perché richiamano il Lingam. Inizia così la storia dei simboli fallici che nel tempo hanno incorporato l’albero, le figure totemiche, gli obelischi e via dicendo e che giungono fino alle stele di cui si è riempita Roma nel Cinquecento, al tempo di Sisto V.
Il riferimento più significativo all’organo maschile, forse, lo ritroviamo nelle culture contadine dove la semina veniva fatta con un bastone piantato nella terra con un movimento a vite per formare il luogo in cui poi deporre il seme. Significato suggestivo e misterioso avevano anche i testicoli che nella fantasia contenevano i nascituri in piccolissime dimensioni da immettere e far sviluppare nel ventre materno.
A partire da queste primordiali credenze il pene ha finito per diventare il test della mascolinità, l’indicatore della virilità, l’oggetto che la evidenzia e la conferma. Avere un grande pene era segno di grande potenza mentre il pene “piccolo”, talvolta considerato addirittura una malattia, induceva profonde e inconsulte paure sulle quali, nel tempo, si è scatenata tutta una geometria, tanto precisa quanto ridicola. Spesso rassicuro i miei pazienti spiegando loro che la vagina non è un organo molto sensibile. Una volta che il pene è inserito e comincia a muoversi trasferisce uno stimolo indiretto al clitoride, che è il vero centro della sensibilità sessuale femminile. Ed è questo che procura piacere alla donna, non la dimensione. Ma noto spesso perplessità e diffidenza. Poi aggiungo che il pene umano e circa cinque volte più lungo e significativamente più grosso di quello dell’orango e del gorilla e l’atmosfera si fa più distesa. Tutto ciò può certamente suscitare un ironico sorriso soprattutto se riferito alla memoria del passato ma deve far riflettere se pensiamo che, sia pure in modo diverso, certe considerazioni su questo organo non si sono modificate poi molto.
L’allarmante conseguenza che ci consegnano recenti statistiche è che il 25% dei giovani e il 45% degli adulti mostra e dichiara di aver un rapporto conflittuale con il proprio pene. Conflittualità non intesa necessariamente come incapacità di funzionamento dell’organo ma anche come ansia, timore, apatia o disinteresse alla sua funzione. Una sorta di “negazione”, di abbandono quasi a considerarlo più una fonte di contrarietà che di appagamento. Invece che essere uno strumento di piacere e di intimità è diventato il termometro dello stress, dell’insoddisfazione psicologica e dei guai esistenziali. La donna, poi, non gli risparmia niente, lo mette alla prova perché dimostri che sa aspettare, che è sincrono alla stimolazione femminile, che è capace non solo di godere ma anche di far godere. Compiti che in un contesto di fragilità e vulnerabilità falliscono facilmente e altrettanto facilmente inducono la paura di ulteriori fallimenti. Ecco che allora è meglio usarlo da soli o con una donna virtuale oppure comprando rapporti mercenari compiacenti e non giudicanti o ancora perdendosi nei meandri dell’accattivante e creativa pornografia che esonda dal web. Un’altra soluzione, più radicale e depressiva, è quella di abbandonarlo e degradarlo relegandolo al ruolo di mera appendice anatomica.
Occorre invece rendersi conto che bombardare la vita quotidiana di seducenti stimoli erotici sempre più ammiccanti e irraggiungibili, sta creando una società frustrata e insicura nella quale al senso di colpa si è sostituita l’ansia del successo e della prestazione unita al culto dell’immagine. I tanti maschi che mi consultano lanciano un segnale forte che indica la necessità di una propedeutica all’uso della propria sessualità e di una riconciliazione con i propri organi genitali mentre non sono ancora spenti gli echi di quella pedagogia post femminista che lotta affannosamente per il suo disuso.
dott. Filippo Nicolini

BOX: Paese che vai nome che trovi

Non sono molti i termini che possono vantare tanti sinonimi eufemistici, scurrili, funzionali, dialettali, letterari, affettuosi o volgari quanto gli organi genitali. In particolare il membro virile viene spesso rappresentato nell’immaginario collettivo e dunque nel linguaggio come un’entità con vita propria. Si spazia dal mondo ortofrutticolo con la fava, la banana, il pisello, la carota o il cetriolo, a quello animale in cui lo si trova nelle vesti di uccello, pesce, picchio, serpente, anguilla. E potremmo indicarlo ancora come fallo, verga, mazza, asta, nerchia, birillo, cannolo, piffero, pistolino, salame, stanga, torrone, trapano, terza gamba e via dicendo.
Ma i termini più affascinanti sono senza dubbio quelli dialettali. Come non ammirare, solo per fare qualche esempio, l’azzittamonache lucano, il bischero toscano o il bindolùn piemontese. Ma anche il capitone senz’e recchie o il cefalo sguarramazzo napoletani, il ciufello abruzzese, la ciaramedda messinese, il pimperlo altoatesino, il classico pìrla milanese, l’abbacchio laziale o il chillitone cagliaritano. E per concludere un pensiero al nostrano bimbin ma soprattutto all’austroungarico klinz.


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