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A hard day’s night

 |  Redazione Sconfini

È il 1963 e siamo in piena Beatlemania. La cultura occidentale assiste ad un fenomeno nuovo. Quattro ragazzi inglesi fanno musica per teenagers loro coetanei, e sfondano barriere di celebrità prima solo sognate da qualche rara star del cinema.

Scariche di isteria collettiva accompagnano il loro arrivo nelle città d’Europa: si scatenano incidenti, le forze dell’ordine bastonano, arrestano i pochi che hanno più di diciott’anni. I dischi vengono piazzati su un mercato giovanile in dilatazione, ai limiti dei confini planetari: primizie beatlesiane del ’63-’64, assicurano i collezionisti, sono rinvenibili nei recessi più insospettabili del terzo-quarto mondo. Gli adolescenti del dopoguerra, appunto, si elevano a una precisa fisionomia sociale attraverso l’esercizio di un consumo sempre più di massa. Un gruppo rock-pop come vettore di guadagno in larghissima scala, e i “Giovani” come soggetti acquirenti in scala altrettanto larga: due elementi strettamente intrecciati, due fra gli eventi decisivi all’alba dei Sessanta. La United Artists fiuta l’affare. Pianifica un modesto investimento – 500.000 dollari – per un film che speculi sulla bizzarria del caso prima della sua implosione spontanea: nessuno infatti è pronto a scommettere sulla sua durata. Gli analisti di costume della quasi-major hollywoodiana la vedono come una perturbazione transitoria, anzi, che presto andrà a confinarsi su un manipolo di fedelissimi britannici. Bisogna fare in fretta e furia, dunque: chiamare un regista avvezzo a ritmi veloci, in grado di mettere in piedi un prodotto dignitoso nel giro di sei settimane e mezzo, e, cosa assai più impegnativa, di rendere presentabili sul grande schermo i rozzi “capelloni” di Liverpool. Viene scelto Dick Lester, che è noto per lo stile originale, e che ha già avuto a che fare con tipi piuttosto stravaganti: i “Goons”, un gruppo farsesco inglese precurscopertina beatlesore dei Monty Python, di cui fa parte un giovane Peter Sellers. Lester li ha diretti in un paio di programmi televisivi, come “Idiot’s weekly”, esili strisce di comicità surreale e dissacrante. Ma tanto lesive del pudore collettivo, in genere, da essere stroncate dopo la prima puntata.

 

“A Hard Day’s Night” partecipa della stessa leggera surrealtà: un tratto fondamentale per capire la temperie di quel tardo dopoguerra. Molte delle componenti di questa stagione avrebbero portato alla piena espressione della controcultura, della pop-art, delle pratiche hippy; e sarebbero diventate la polpa del Sessantotto maturo. Si tratta di un’insofferenza a ciò che è fissato per norme e convenzioni, a ciò che è prestabilito, e a ciò che è logicamente sequenziale. È un’adesione alla libertà intesa come libera associazione, come occasionale giustapposizione dei più vari elementi su un medesimo piano indifferenziato. È un approccio alla vita spensierato, ma nel suo senso più radicale (e terribile): come una ridda di contingenze slegate, cioè senza un pensiero che le connetta insieme, e che conferisca loro una storia. Per farsi un’idea sul come e perché sia nata la leggenda degli anni Sessanta come dorato evo della pace e dell’amore, è necessario guardarli isolando il filo dell’impalpabile spirito anarchico che li percorre tutti. E l’umorismo dei Beatles, irriverente e scanzonato, è fatto di questa qualità paradossale: il film di Lester, che una vera e propria trama non ha, ne offre un documento significativo. Alun Owen, sceneggiatore anche lui di Liverpool, vi ha costruito intorno una struttura lieve lieve di scenette a base di inseguimenti, di botta-e-risposta demenziali, di strampalati malintesi: Paul che deve badare al suo improbabile nonno; John che con la sua inaffidabilità spinge all’esaurimento il manager del gruppo; George capitato per caso ad un sofisticato provino di moda, che scandalizza tutti con le sue «rough manners»; l’autoironico Ringo che si dà a una fuga randagia, stanco della posizione subordinata cui lo relegano gli altri tre.

 

Tre mesi dopo il film è pronto. Viene organizzata una proiezione in anteprima per i pezzi grossi della United Artists: tra cui Billy Wilder (“La fiamma del peccato”, “Il Viale del tramonto”) e John Sturges (“I magnifici sette”, “La grande fuga”), basiti al termine della visione («Non ho la più pallida idea di cosa ho visto, ma so che faremo tanti soldi»: Sturges). Non avevano torto. Nel 1964, digerire mentalmente qualcosa di molto simile a un lungo sfrenato videoclip non dev’essere stato così semplice. L’apparenza è proprio quella: impianto caotico, montaggio indiavolato, rock trascinante, al punto che sono in molti a ritenere oggi Lester il padre spirituale di Mtv. In effetti, è difficile restituire a parole la festa di soluzioni visive poste in atto da “A Hard Day’s Night”, che, in sintesi, è un mix di tutte le invenzioni più spiazzanti del Free Cinema e della Nouvelle Vague. Fresco, a tratti esilarante, non si può non guardarlo con un pizzico di nostalgia: frammento di un tempo e di un modo d’essere ingenui e spensierati, ma nel senso più innocente possibile della parola. Gran parte delle canzoni, da Tell Me Why a quella del titolo, sono state scritte in corso di produzione apposta per il film. Owen si è preso la soddisfazione di una nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura. Distribuito e altrimenti conosciuto in Italia col titolo dumasiano Tutti per uno (?).

 

Regia: Richard Lester.

Sceneggiatura: Alun Owen.

Direttore della fotografia: Gilbert Taylor.

Montaggio: John Jympson.

Interpreti principali: Ringo Starr, John Lennon, Paul McCartney, George Harrison, Wilfrid Brambell, Norman Rossington, Victor Spinetti, John Junkin.

Musica originale: George Harrison, Paul McCartney, John Lennon.

Direzione musicale: George Martin.

Produzione: United Artists.

Origine: Uk, 1964.

Durata: 90 minuti.

 

Filmografia essenziale di R. Lester.

 

Mani sulla luna (1963); A Hard Day’s Night (1963); Help! (1965); Come ho vinto la guerra (1967); I tre moschettieri (1974); Milady – I quattro moschettieri (1975); Robin e Marian (1976); Cuba (1979); Il ritorno di Butch Cassidy (1979); Superman II (1980); Superman III (1983); Il treno più pazzo del mondo (1984); Il ritorno dei tre moschettieri (1989).

Patrick Karlsen

 

 

 

 

 


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