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Arrivederci amore, ciao, di Massimo Carlotto

 |  Redazione Sconfini

Giorgio Pellegrini è un pezzo di merda e questo romanzo racconta la sua storia. Negli anni Settanta milita nella lotta armata in una formazione della sinistra extraparlamentare. Partecipa a un’operazione – una bomba piazzata a Milano davanti alla sede dell’Associazione degli industriali – nel corso della quale ci rimette le penne un poveraccio, un metronotte che per fare il suo dovere si era avvicinato troppo alla borsa sospetta.

 

A quel punto Pellegrini fugge in Centroamerica e dopo qualche tempo fa fuori a tradimento il militante che l’aveva seguito, implicato anche lui nell’omicidio. Ritorna in Italia negli anni Novanta deciso a rifarsi una vita. Il modo più veloce è ancora tradire. Questa volta ne fanno le spese i suoi ex compagni, minaccia di fare tutti i nomi e così ottiene che uno di quei disgraziati, già in galera, si dichiari colpevole dell’uccisione del metronotte e finisca per scontare l’ergastolo al suo posto.

 

Dopo un breve soggiorno a San Vittore passato a estinguere una manciata di reati minori risalenti alla passata militanza e un periodo di assestamento utile a capire che l’unica cosa da fare per non restare un “miserabile” era un mucchio di soldi con qualunque mezzo, Pellegrini acciuffa la prima occasione per trasferirsi nel Nordest. La “locomotiva” del Paese. Dove i soldi si fanno sul serio, con qualunque mezzo.

 

Lì il nostro eroe trova l’habitat ideale per esplicare a fondo la sua etica. E l’ascesa nella società “bene” del Veneto conoscerà un tracciato non sempre agevole, costellato di nuovi tradimenti e nuovi delitti compiuti col consueto glaciale cinismo: ma per lui sarà un tracciato garantito e lineare.

A Pellegrini il produttivo Veneto piaceva eccome. Sentiamo perché: “Era un luogo di frontiera e tutti avevano la possibilità di costruirsi un futuro da vincenti. Bastava un po’ di inventiva, voglia di fare e zero paura di metterlo in culo al prossimo. Primo della lista lo Stato e le sue tasse del cazzo. Conoscevo gente che prima girava con le pezze sul sedere, poi aveva trovato il business giusto e ora il sedere lo appoggiava sul sedile in pelle di una Mercedes e spendeva un milione a sera con le ragazze” (p. 34).

 

È in questo ambiente che Pellegrini raggiunge l’agognata riabilitazione. Quel dispositivo del codice penale – agli articoli 178 e 179, riportati da Massimo Carlotto in calce al romanzo – che prescrive la decadenza della paltena e di ogni effetto legato alla condanna purché il delinquente abbia alle spalle cinque anni di buona condotta. Naturalmente non è il caso di Pellegrini. Di reati anche gravissimi in quei cinque anni trascorsi in Veneto l’ex terrorista torna a macchiarsi non poche volte. La sua riabilitazione è semplicemente l’astuto adeguarsi a nuovi modelli di criminalità.

 

La sua vicenda agli occhi di chi è nato o era bambino negli anni Settanta, cioè, non può non apparire paradigmatica di un percorso seguito da molti, troppi militanti di quella sedicente lotta armata che in realtà è stata spesso una palestra frequentata da ego ipertrofici in delirio di onnipotenza, sfruttata per acquisire forme irregolari di potere, assaporare e abituarsi al brivido del potere attraverso l’illegalismo. Pellegrini è una metafora di quelli che hanno fatto con successo il salto del fosso, dal controllo delle assemblee e dei collettivi al controllo di signori conti in banca cavalcando la stessa amoralità. A scapito degli illusi che ci credevano davvero e di tante brave persone, lasciate a dissanguarsi sul marciapiede sotto casa.

 

E non è ovviamente un caso che il protagonista di questo straordinario romanzo di Massimo Carlotto riesca a costruirsi la sua seconda vita nel Nordest degli anni Novanta. Pellegrini viene accolto da pari a pari, in quella società vuota e vorace si camaleontizza alla perfezione, si reintegra, va incontro alla riabilitazione nel senso più pieno della parola.

 

È il Veneto dei capannoni cresciuti come funghi a suon di abusi edilizi, delle fabbrichette sostenute da lavoro nero e sfruttamento familista, degli aperitivi ingordi e delle serate a base di entraîneuse schiavizzate e coca nei night dei rumeni. Ed è l’Italia del nostro presente, la locomotiva della modernità italiana che corre fondendo legalità e illegalità, crimini, affari e politica; è il Nordest – commenta Carlotto – “dove la mafia, quella nuova, ha fatto scuola” (p. 134).

 

Carlotto la descrive con una scrittura fredda, crudele come i pensieri e le azioni di Giorgio Pellegrini. Ha scritto qui il suo capolavoro, perché Arrivederci amore, ciao è più diretto del pur impressionante ma cerebrale L’oscura immensità della morte e non affoga nel melò come invece a tratti fa Nordest. Ci impressiona e lascia sgomenti, ma ci fa guardare con ritrovata fiducia alle sorti del romanzo italiano. Qualcuno ha ancora il coraggio di sporcarsi le mani. C’è qualcuno che sa raccontare il Paese in cui viviamo.

 

“La notizia della sentenza definitiva sul caso Calabresi venne annunciata all’osteria da un avvocato appena tornato dal tribunale di Venezia. Era l’ora dell’aperitivo serale, e La Nena era piena di gente. La condanna venne accolta con esclamazioni di soddisfazione e gridolini di gioia di un paio di signore. Sante Brianese organizzò un brindisi, e all’improvviso mi ritrovai gli occhi di tutti puntati addosso.

 

Capii cosa mi stavo giocando. «Offro io» gridai gioioso, alzando una bottiglia di prosecco. Cercai con lo sguardo tra i clienti gli ex rivoluzionari, e notai che tutti facevano a gara per dimostrare di avere tagliato i ponti col passato. Sorrisi soddisfatto. Ero in buona compagnia” (pp. 132-33).

Patrick Karlsen

 

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

Massimo Carlotto, Arrivederci amore, ciao, Edizioni e/o, Roma 2001, I ed., edizione nei Super e/o, Roma 2006.

L’autore è nato a Padova nel 1956 e vive in Sardegna. Ha scritto numerosi romanzi di successo, tra cui ricordiamo Il fuggiasco, L’oscura immensità della morte, Niente più niente al mondo e Nordest, scritto con Marco Videtta. Da Arrivederci amore, ciao è stato tratto nel 2006 il film di Michele Soavi con Alessio Boni e Michele Placido. Il titolo si riferisce a un verso della canzone Insieme a te non ci sto più di Paolo Conte/Vito Pallavicini portata al successo dalla voce di Caterina Caselli nel 1968.

 


In collaborazione con Help!

 

 


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