La nuova Europa
Le retoriche dominanti vedono nella politica estera dell’America, da un lato, e nella politica economica della Cina, dall’altro, i motori della storia del nostro tempo. Non colgono un terzo fattore di mutamento più concreto. L’ascesa delle nazioni centrorientali d’Europa. Che un giorno non troppo lontano potrebbero costituire una via d’uscita, per noi italiani e noi europei, dalla politica estera dell’America come dalla politica economica della Cina.
L’ho detto fattore più concreto perché non possiede quel certo strato di artificiosità, impenetrabilità o inverificabilità, che ad uno sguardo critico appare circondare gli altri due. A tutt’oggi si sa che sono accaduti l’11 settembre, la guerra in Afghanistan e in Iraq, ma si sa pure che non è possibile collocare questi fatti in una spiegazione coerente stando alle categorie e ai nessi ufficiali proposti dai governi e dai mass media. Sull’argomento non credo necessario soffermarsi oltre. Quanto alla Cina, il suo sviluppo recente è indubbio, ma le sue dimensioni gonfiate. Se è reale, ne sentiremo le reali ricadute non certo domani ma molto più tardi. Quello di oggi, in parte, è un capro espiatorio messo su per alimentare paure di comodo o per nascondere responsabilità che sono occidentali. Recentemente si è arrivati a dire che il prezzo del petrolio sale per colpa della Cina, che il virus dei polli è colpa della Cina. È utile riflettere su che cifra di consenso queste affermazioni siano capaci di addensare, e su come orientino il mercato. Chiedersi quali bandiere investano in Cina, persino nel settore dei polli; cioè quanto di nazionale vi sia nel suo sviluppo. E dove mai sia finita la Sars.
La rinascita delle nazioni dell’Europa centrorientale, invece, non è una menzogna ma un evento solido, grande ma discreto che non ha bisogno di illusionismi. Quando pensiamo all’Europa pensiamo troppo a Parigi, Amsterdam o Londra; al no alla costituzione espresso dai francesi e dagli olandesi, all’euroscetticismo dei britannici. Bene, sbagliamo. Dovremmo dedicare assai più attenzione a Praga, Budapest o Lubiana; al sì dei cechi e dei magiari, all’euroentusiasmo degli sloveni; perché il barometro del futuro europeo per molti versi segna a Est, la nuova Europa sono loro.
Sono popoli che dalla disgregazione dell’Impero asburgico hanno subìto il Novecento nelle sue punte più aspre. Già l’idea di Mitteleuropa, fuori da ogni mitizzazione letteraria, conteneva il fondo duro di un’idea di Europa centrale in funzione tedesca. Alla fine dell’Ottocento Bismarck vedeva come ruolo storico dell’Impero quello di tenere le nazioni “slave” del continente al riparo dal risucchio russo. Solo poi, questa politica ancora in parte prudente è stata estremizzata e deformata in aperta volontà pangermanista. A quel punto, a qualche mente lucida pareva chiaro che l’Impero dovesse far da cuscinetto tra i due pericoli del Novecento, pangermanesimo appunto e panslavismo russo. Ma l’indipendenza serba in chiave antiasburgica e la Prima guerra mondiale hanno sconvolto questa prospettiva; e l’Impero si è spaccato in tutti i suoi rottami. Poteva essere rinnovato in senso repubblicano e federale, come volevano i socialisti viennesi e alcune frange dell’irredentismo democratico. È possibile che l’equilibrio europeo, così, si sarebbe salvato. La sua distruzione invece è stata come la rottura di una diga, di una doppia diga: prima la Germania nazista da Ovest e poi la Russia sovietica da Est sono confluite in quel grande spazio lasciato vuoto.
Ora, per la prima volta le nazioni che lo compongono sono libere e padrone della loro storia. E, in seno all’Unione Europea, sono tornate a costituire un unico aggregato economico; forse compiutamente politico, un domani. Popoli che si sentono derubati di un secolo si affacciano sul nuovo con un fervore da noi dimenticato, paragonabile a quello italiano del dopoguerra. Popoli con una luminosa tradizione culturale che il comunismo non è riuscito a corrodere né a sostituire, e il cui tessuto civile la religione del consumo non ha ancora immiserito; pressoché autosufficienti da un punto di vista produttivo, nutriti dall’enorme bacino agricolo di cui dispongono e costretti ad importare solo beni industriali di tipo sostanzialmente voluttuario. Non manca molto perché abbiano l’indispensabile per fare sistema a sé.
Nemmeno è escluso che un giorno l’Unione Europea “a due velocità” impazzisca nella centrifuga degli incrociati scetticismi. Che a livello fattuale, se non pure formale, si divida in due conglomerati, l’uno retto da un asse franco-britannico e l’altro con baricentro Vienna-Praga-Budapest; e con la rediviva Berlino chiaramente decisa da che parte stare. L’Italia allora non avrà molte alternative: o collaborare alla costruzione della nuova Europa facendo da collegamento tra questa e il Mediterraneo arabo, o condannarsi al ruolo di mozzo della corazzata Usa-Gb e a fido sottoposto di tutti i Bové francesi.
Concludendo, nella nostra regione meglio che altrove si può “sentire” cosa sta bollendo nella pentola della vecchia Mitteleuropa: vecchie terminazioni, intorpidite da decenni, di scambio commerciale, culturale, delle risorse tecniche e umane, si stanno riattivando in un reticolato che da Suez passa a Trieste e si estende a Monaco e Varsavia. È iniziato il grande rimescolamento. Le genti non fanno che seguire il Drang, la tensione imposta dalla storia. E la storia è un fiume che s’ingrossa pian piano, una forza che si mette in marcia senza clamori o finzioni, che blandisce o travolge. Intendo che per Trieste, per tutto il Friuli Venezia Giulia il tempo sta per ricominciare a scorrere; dopo un lungo sonno è arrivata l’ora dei bilanci. O l’italianità riuscirà ad essere finalmente risorsa, strumento di guida e integrazione del nuovo, e non più muro, riflesso di piccina mentalità “di confine”, o accadrà una volta per tutte che la marea del cambiamento passerà sopra le nostre teste.
Patrick Karlsen