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Il confine e il peso di un passato insegnato male

 |  Redazione Sconfini

 

Ho trent’anni e ho girato il Friuli molto più dell’Istria. E così la maggior parte dei miei amici. Basterebbe questo per raccontare quanto i confini, anche per quelli nati come me nell’ultimo quarto del Novecento, siano stati nel corso della nostra vita una presenza incombente e ingombrante.

Sul piano materiale, fisico, geografico, ma anche su quello psicologico e politico.

 

Ricordo bene come a scuola, fin dalle elementari, fosse meglio pensarci due volte prima di dire davanti a qualcuno che la propria madre, o il padre, o entrambi i genitori erano sloveni. Ricordo bene quell’esitazione, quel timore. La diffidenza, il senso di inferiorità instillato in una parte e il senso di superiorità spesso ostentato dall’altra.

 

Ricordo quando intorno ai vent’anni io e un mio amico ci siamo stupiti – e quanto spaventati, e quanto indignati – al pensiero improvviso di non conoscere nessun ragazzo o ragazza della “minoranza”. È stata una illuminazione. Di colpo ci siamo resi conto che non sapevamo nulla dei ventenni sloveni nostri concittadini, quali abitudini avevano, che locali frequentavano, dove si ubriacavano, dove si innamoravano. Magari nei nostri stessi luoghi, gomito a gomito con noi, ma allora era peggio perché evidentemente non lo facevano nella loro lingua. Era così raro sentire parlare lo sloveno, non accadeva quasi mai.

 

Di colpo, a me e al mio amico in quel momento sembrò di abitare nel Sudafrica dell’apartheid. Fu allora che aprimmo gli occhi e vedemmo per la prima volta il confine. Non stava sul Carso. Tagliava ogni strada della città.

 

Così era Trieste negli anni Ottanta e ancora negli anni Novanta, quando per fortuna il ricambio cominciò a diventare visibile anche politicamente. Oggi, io e molti altri miei coetanei proviamo repulsione per il clima di chiusura in cui spesso ci siamo trovati a crescere. Dirlo è doloroso, ma anche molto liberatorio. Per una certa Trieste velenosa e insofferente di venti, quindici anni fa noi proviamo vergogna. Semplicemente, la rifiutiamo.

 

Malgrado quello che i vecchi amano dire di noi, non siamo affatto ignoranti riguardo alla storia che abbiamo alle spalle. La conosciamo, ci hanno obbligati a conoscerla. Anche se non avessimo voluto ascoltarla, era dappertutto. Nei ricordi in famiglia ripetuti alla nausea, nei pregiudizi e nell’ostilità che tagliavi col coltello, negli sguardi di sottecchi, nelle malignità a bassa voce. Ma soprattutto nelle omissioni, nella parzialità e nella cattiva coscienza dei racconti che ci venivano propinati in continuazione. Chiunque ti parlava, era una vittima. La violenza e il torto, tutti dall’altra parte. Il trucco era taltroppo palese per non essere fiutato. E per non insospettire anche i più ingenui.

 

Chi di noi ha avuto la voglia o la fortuna di approfondire, di leggere e studiare, ha poi un altro motivo per respingere in blocco quel passato. Il punto è che abbiamo capito piano piano che ci avevano raccontato la storia sbagliata, una storia parecchio monca e macabra, tutta di segno negativo. E non i nostri professori, i quali per una sorta di imbarazzato riserbo, a parte sempre lodevoli eccezioni, cercavano di non toccare nemmeno certi tasti. Ma coloro che si sono eretti a nostri maestri “supplenti” fuori di scuola. Una selva di parenti, conoscenti, amici di parenti e conoscenti, giornalini e libretti, trasmissioni di tv e radio locali, che nella foga didattica e compensatoria del racconto, nell’ansia compulsiva di mostrare partecipazione alle sorti della città, hanno offerto in realtà un pessimo servizio a Trieste. Paradossale. Molto ironico. Ma vero.

 

Ci hanno descritto la Venezia Giulia del secolo scorso come un pentolone ribollente di persecuzioni, intolleranze, ideologie totalizzanti e opprimenti. Univocamente, senza scampo, la nostra era la terra dei nazionalismi e degli estremismi; la Risiera, le foibe e l’esodo i punti cardinali di questa patria-simbolo del crimine politico novecentesco. Non c’è qualcosa che spieghi in modo semplice un atteggiamento tanto controproducente, e cioè la vera e propria dissipazione culturale che ha avuto luogo su questi lidi nel lungo dopoguerra. Ma la verità è che nessuno, occupandosi della nostra educazione civile, ci ha mai illustrato a dovere le figure e le esperienze che smentiscono la statica effige giuliana del sopruso e del dolore.

 

Sono stato formato nelle scuole italiane di dieci-quindici anni fa, dunque è di questo mondo che sto parlando. Non una parola su quanti nella Venezia Giulia, né pochi né di scarso spessore intellettuale, hanno combattuto in vita e a volte sono morti in nome di valori antitetici, o sicuramente diversi rispetto alle idealità dei nazionalismi e dei totalitarismi. Non una parola sul loro retroterra di appartenenze politiche e culturali. Di contro, l’evidente incapacità di accostare quei profili uno di fianco all’altro, così da poter scorgere il filo di una tradizione, di un sostrato, di un contesto differenziato ma di comune impronta liberal-democratica. Contesto nutrito da una secolare abitudine alla tolleranza e alla convivenza in un’area per costituzione cosmopolita fino alla Dalmazia, patrimonio a sua volta di estesi settori della società dell’Adriatico orientale, sebbene silenziosi e discreti. Orientati forse a esprimere quei valori nella pratica minuta della vita quotidiana. Di certo valorizzati raramente dalla politica, messi ai margini da ben più rumorose minoranze attive.

 

A tale discorso l’accademia obietta di solito che quelle correnti, che per comodità chiamo qui antitotalitarie, non sono state in grado di incidere nella realtà politica giuliana. Al contrario sono risultate perdenti, sconfitte nella dura battaglia della storia nel mentre quella battaglia si svolgeva. È un’obiezione che muove da misteriose pulsioni autolesioniste: forse dal risentimento di un ceto intellettuale che con qualche frequenza, per mancanze e difetti suoi, ha avuto difficoltà a conciliarsi con la società in cui operava. Essa mira ancora una volta a svalutare la storia complessiva della Venezia Giulia, ritraendola come imprigionata in un suo piccolo Sonderweg, essenzialmente “destinata” a partorire i mostri ideologici che l’hanno alla fine divorata. Quasi fosse lei stessa un territorio adatto a produrre – e non invece a subire – forme particolarmente aspre di fascismo e poi di comunismo.

 

Di questa obiezione ci si sbarazza con un paio di domande, che sorgono da un facile quanto sano esercizio di comparazione e contestualizzazione. In quale luogo le forze antitotalitarie hanno prevalso, dopo la Prima guerra mondiale? In quale luogo hanno potuto disporre della massa critica necessaria ad arrestare la marea montante del radicalismo politico? Non in molti posti, mi pare. Certo non in Italia o nell’ex Jugoslavia. Se la quasi totalità d’Europa si stava allora “ammalando” di totalitarismo, quel morbo per imporsi nella Venezia Giulia – una regione composita, etnicamente e nazionalmente plurale – ha dovuto aggredirla con speciale virulenza.

 

Il fascismo italiano e il comunismo jugoslavo non sono nati qui. Qui si sono manifestati ed espansi con notevole crudezza, perché le condizioni di partenza di questa regione la rendevano più difficile da assimilare in un progetto totalitario.

Sicuramente, a parecchi tra i giovani della regione non dispiace il futuro europeo che si sta aprendo davanti a loro. Dispiace molto di più un passato nel quale non hanno mai saputo né voluto riconoscersi. Anche perché sanno, o intuiscono, che spesso glielo hanno insegnato davvero male.

Patrick Karlsen

 


In collaborazione con Help!

 

 


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