Esploratori part-time tra Moggessa di Qua e di Là
Borghi abbandonati, villaggi semideserti, decrepiti rustici ormai lasciati ai verdi rampicanti… Non è un nuovo cartone su orientaleggianti mondi perduti, ma, strano a rivelarlo, la cruda realtà territoriale friulana. Protagonista è la regione montana. Sì, le montagne. Meravigliose, davvero. Peccato ci siano le salite, altrimenti ci abiterei volentieri anch’io.
Forse non sono l’unica a pensarla in questo modo, vista l’abbondanza di località “depresse”. Sono luoghi impegnativi da vivere, difficili da raggiungere, lontani dal posto di lavoro. In una parola, scomodi. Qualcuno ancora resiste fra queste rocce bellissime ed impervie. Come faccia, non lo capisco bene, abituata alle mie comodità cittadine… e, capiamoci, non sto parlando di New York!
Comunque sia, assieme ad alcuni amici, voglio godere anch’io, per una giornata, della percezione romantica della realtà. Con nello zaino un paio di panini al salame e mortadella e due litri di acqua di rubinetto, tutti insieme partiamo verso massime avventure.
Arriviamo in macchina fino a Moggio Udinese di Sopra, precisamente all’abitato Riù. Sprezzanti del pericolo, abbandoniamo l’auto vicino all’ultima casa della zona e cerchiamo di raggiungere a piedi la nostra prima meta: Moggessa di Qua, altitudine 510 metri s.l.m., e ormai ci sentiamo già degli esploratori part time! Il sentiero è stretto e pietroso: ci passa una persona, figurarsi un’automobile. La pista costeggia il rio di Palis e il rio Moggessa. Sono torrenti con poca acqua e il letto a volte è più basso dell’angusta via. Ci sono tratti dove è possibile camminare solo in fila indiana, con il torrente da una parte e la parete rocciosa montana dall’altra, sempre accompagnati da un’incantevole vegetazione e da un silenzio al quale ormai non siamo più abituati.
Nell’ora abbondante di cammino sono entusiasta e incredula. Per sentito dire, infatti, ho saputo che in questi paesi ci abita della gente. Chissà come sono, cosa fanno durante il giorno, quanti anni hanno… i pensieri volano. Ma vengono inopportunamente interrotti da un rumore in lontananza. È strano quanto possa infastidire un suono quando prodotto in un contesto che non lo prevede. Un fastidioso scoppiettio, che si avvicina con insistenza molesta. Sopra le nostre teste aleggiano enormi punti di domanda sostenuti dallo stupore.
Aspettiamo con filosofica rassegnazione di incontrare l’essere che osa disturbare l’effimera quiete orgogliosamente scoperta. Finalmente, eccolo spuntare all’orizzonte sul greto del torrente: un centauro!! Ma come? Dove? Un ragazzo, in piedi a gambe tese, sulla sua moto da trial, ci viene incontro quasi annoiato. Arriva da dove noi vogliamo andare. Probabilmente abita a Moggessa e va a bersi una birretta a Moggio Udinese. Chissà quante volte al giorno percorre la strada e con quali carichi. D’altra parte, questo mezzo di trasporto è l’unico possibile su simili terreni, escludendo l’elicottero che mi sembra un tantino eccessivo.
E io che speravo di trovare un mondo perduto preistorico alla Jurassic Park, mi dico. Ad ogni modo, prevedibilmente, il ragazzo-trial diventa immediatamente argomento di discussione ed esame per i successivi 10 minuti, fin quando cioè raggiungiamo il primo villaggio, totalmente disabitato. Le chiacchiere seguono l’onda e si spostano sui resti diroccati di quelle case montane, le cui pareti ancora in piedi si stagliano sull’azzurro del cielo estivo. Siamo contenti e non ancora distrutti.
Non ci rilassiamo troppo, però, perché sappiamo che la nostra vera meta è Moggessa di Là, a 530 metri s.l.m., a circa 40 minuti di cammino. Ingolliamo con perfida soddisfazione l’acqua e ci rimettiamo in marcia. Scendiamo per poi risalire, e finalmente arriviamo alla terra promessa. Incredibile. Rimango stupita una volta di più.
Su un lieve pendio si adagia il villaggio, rivolto a sud: è inondato dal sole. Fra le abitazioni ci sono viuzze che si aprono in spazi erbosi più ampi. Ci sembra che almeno tre case del borgo siano abitate tutto l’anno, arredate come sono di fiori e antenne paraboliche. Che abbiano un generatore? Su una parete poggia una seconda moto identica a quella del giovane incontrato mezz’ora prima: l’unico mezzo di trasporto meccanico. Alcune case sono evidentemente abbandonate, altre le stanno sistemando. Ma con che cosa portano qui i materiali? Le tegole, la betoniera per mescolare acqua e cemento, i sacchi di cemento, i mobili, i serramenti… Come fanno? Questa è una domanda che vorrei porre a qualcuno del villaggio. Forse c’è un percorso alternativo che noi, novelli Indiana Jones, non abbiamo individuato. Ci fosse qualcuno fuori! Non mi pare il caso di bussare a casaccio alle porte. Da bravi bimbi ci portiamo la formalità negli zaini.
Camminiamo fra i vicoli stretti di quelle poche case, e in qualche campo incustodito o abbandonato troviamo alberi da frutto carichi. “Uno spreco” ci diciamo. Così, aiutiamo alcune creature ad alleggerirsi del loro peso, che diventa il nostro dopo qualche minuto. Ci rilassiamo al sole, vicino ad un grosso albero. L’erba non è alta, segno che c’è cura del luogo. Ci guardiamo in giro sentendoci vagamente come sovrani sopravvissuti. Addentiamo vivacemente i panini per scacciare pensieri importuni, ci riposiamo un po’ e, felici, ci avviamo a ritornare verso la metropoli friulana con quell’insistente domanda che ci rimbalza nel cranio: ma come avranno fatto a trasportare tutto quel peso?
Ivana Macor