La malattia ossea di Paget
Descritta per la prima volta nel 1877 da Sir James Paget, il morbo o osteodistrofia di Paget è una malattia cronica dell’osso: le due linee cellulari del tessuto osseo, gli osteoclasti (deputati al riassorbimento osseo) e gli osteoblasti (responsabili della formazione ossea), non interagiscono in modo equilibrato.
I cicli di riassorbimento e neoformazione ossea risultano alterati, si produce un osso fragile che causa e rende più frequenti artrosi, fratture, dolore osseo e deformità. Può coinvolgere potenzialmente qualsiasi osso, ma prevalentemente colpisce pelvi, femore, cranio, vertebre, clavicole ed omero. Oltre a conferire un maggior rischio di osteoartrosi e di frattura, soprattutto in prossimità dei distretti e delle articolazioni interessate dalla malattia, in caso di coinvolgimento delle ossa del cranio, può determinare un’elevata incidenza di disturbi dell’udito o complicanze neurologiche (paralisi di nervi cranici). Fortunatamente non frequente, è stata osservata un’associazione della malattia con disturbi cardiovascolari quali lo scompenso cardiaco ad alta portata e presenza di calcificazioni vascolari o delle valvole cardiache. Le cause del morbo di Paget sono in larga parte ancora sconosciute: si ipotizza l’ereditarietà dato che in alcuni casi la malattia è presente in più membri della stessa famiglia. Recentemente è stata descritta una possibile relazione tra una mutazione a livello del cromosoma 5 (gene del sequestosoma 1, SQSTM1) e malattia ossea di Paget. I meccanismi attraverso i quali questo fattore determina la malattia e la possibile associazione con un’infezione virale sono ancora oggetto di ricerche. È possibile quindi che la malattia insorga in seguito a cause infettive, in soggetti geneticamente predisposti. Questa malattia è raramente diagnosticata nelle persone sotto i 40 anni. La prevalenza varia dall’1% all’8% delle persone adulte e dipende dall’età e dall’area di provenienza. La frequenza dei casi familiari varia dal 10% al 40% a seconda dei vari studi. Sia gli uomini che le donne possono essere colpiti dalla malattia, anche se una leggera prevalenza è stata descritta nel sesso maschile. Il rischio di malattia nei parenti di primo grado di soggetti affetti da osteopatia di Paget è sette volte maggiore rispetto ai soggetti che non manifestano familiarità per tale patologia. Pertanto, dopo i 40 anni, sia i fratelli che i figli dei soggetti affetti dalla malattia ossea di Paget dovrebbero essere sottoposti ad un dosaggio sierico della fosfatasi alcalina ogni 2 o 3 anni, anche in assenza di sintomatologia clinica specifica. La fosfatasi alcalina sierica è un enzima prodotto dagli osteoblasti. Se i livelli di fosfatasi alcalina risultano al di sopra del range di normalità, variabile in base al test usato in laboratorio (e non c’è segno di epatopatia), dovrebbe essere effettuato un esame scintigrafico nel sospetto di osteopatia di Paget. Se la scintigrafia risulta positiva deve essere eseguito un radiogramma mirato dell’area o delle aree ad elevata captazione per confermare la diagnosi. Il dosaggio della fosfatasi alcalina è utile sia per definire l’attività della malattia, sia nel follow-up, al fine di evidenziare le mutate condizioni di attività di malattia determinate dal trattamento: le terapie attualmente validate sono in grado di ridurre questo parametro di circa la metà nella maggioranza dei pazienti. Molti pazienti che sono colpiti dall’osteopatia di Paget non sanno di esserlo fintanto che la malattia è in forma lieve, tanto da non essere diagnosticata. In alcuni casi i sintomi dei pazienti vengono confusi con l’artrosi o altre patologie scheletriche comuni dell’età senile e la diagnosi viene quindi fatta solo dopo che si sono presentate le complicazioni. Quando la malattia si manifesta i sintomi sono dolore osseo, cefalea (qualora la malattia di Paget interessi le ossa del cranio), dolori alla schiena e alle gambe (quando interessa la colonna vertebrale), sordità (se interessa l’orecchio interno a causa del coinvolgimento delle ossa del cranio), deformità ossea, con un aumento della circonferenza del cranio, una deformazione degli arti o una curvatura del rachide (causate da un ingrandimento e/o indebolimento delle ossa affette e insorgono tipicamente allo stadio avanzato della malattia), fratture. L’artrosi è la condizione che porta a dolore articolare a causa di un danno della cartilagine delle articolazioni in prossimità dei distretti ossei colpiti. Le ossa ingrossandosi possono comprimere alcuni nervi, aumentando così il dolore. La sintomatologia soggettiva varia a seconda della localizzazione e i quadri clinici possono essere molto diversi fra loro. Le vertebre possono deformarsi, indebolirsi e schiacciarsi: lo schiacciamento e la compressione dei nervi vertebrali che ne derivano possono determinare intorpidimento, pizzicore, bruciore in corrispondenza del segmento osseo, aumento della temperatura nella sede ossea interessata, debolezza o anche paralisi delle gambe. I pazienti colpiti alle anche o alle gambe possono avere gambe arcuate e un passo corto ed insicuro. Non ci sono sintomi sistemici come febbre, perdita di peso, riduzione dell’appetito. La diagnosi può essere facilitata da esami di laboratorio. Una volta formulata una diagnosi certa, una scintigrafia ossea può aiutare a capire quali ossa sono state colpite e quali no dal morbo di Paget. Non esiste una cura definitiva per la malattia di Paget ma ci sono farmaci in grado di controllarla che agiscono riducendo l’attività degli osteoclasti, detti farmaci antiriassorbitivi. L’orientamento terapeutico attuale dei Centri di riferimento delle Malattie metaboliche dell’osso è più aggressivo rispetto a un passato anche recente. Si consiglia la terapia medica quando si riscontrano valori di fosfatasi alcalina superiore del 25% del normale, se colpiti sono molti distretti scheletrici e il dolore è molto invalidante. La terapia migliora i sintomi e riduce la fosfatasi alcalina. Le terapie attualmente validate sono in grado di ridurre questo parametro di circa la metà nella maggioranza dei pazienti e prevenire le complicanze. Il tipo e la durata del trattamento sono variabili a seconda del paziente: attualmente i farmaci antiriassorbitivi, detti “bisfosfonati”, inducono una remissione della malattia prolungata nel tempo ma può essere utilizzata, in alcuni casi, anche la calcitonina. Già dopo 24-48 ore dall’assunzione è presente l’effetto ed è massimo dopo 1-3 mesi. Dopo cicli ripetuti di terapia è possibile che i pazienti rispondano meno bene che all’inizio del trattamento e si deve ricorrere ad un dosaggio maggiore o ad un bisfosfonato di tipo diverso. Per lenire il dolore si usano antinfiammatori comuni o si possono usare supporti ortopedici per facilitare la deambulazione. Qualche volta si deve ricorrere alla chirurgia in caso di compressione di radici nervose o per sostituire articolazioni artritiche. Ignazia Zanzi