Quando a fine marzo la Procura chiese l'archiviazione per Tiziano Renzi indagato per bancarotta fraudolenta dell'ex società di famiglia (Chil Post), il celeberrimo figlio Matteo il Bomba tirò un sospiro di sollievo.
Il premier, passato dalla modalità rottamatore a quella di ipergarantista in meno di un anno, non mancò di sottolineare pochi giorni fa l'iniziativa della Procura mentre cercava da bravo berlusoniano di difendere il sottosegretario Giuseppe Castiglione (NCD) indagato nell'inchiesta di Catania sull'appalto per la gestione del Cara di Mineo: "Io ho anche un padre indagato a Genova e se mi fossi basato sugli avvisi di garanzia avrei dovuto impedire ai miei figli di vedere il nonno. Invece dopo otto mesi la Procura ha fatto richiesta di proscioglimento".
Purtroppo per lui, però, il gip Roberta Bossi non è stata dello stesso avviso e non accogliendo la richiesta della Procura ha cassato la proposta di archiviazione per proseguire le indagini con ulteriori approfondimenti.
Secondo l'accusa il papà di Renzi avrebbe sottratto 1,3 milioni di euro alla società per poi farla fallire e cederla a due nuovi amministratori: Antonello Gabelli e Mariano Massone, i quali avrebbero effettivamente completato l'opera di distrazione di capitali dalla società. Il giudice ha chiesto una consulenza per approfondire lo studio dei bilanci e dei libri contabili della società.
La Chil Post srl è la stessa ditta resa celebre un paio di anni fa quando si scoprì che Matteo Renzi nel 2004 passò dallo status di co.co.co. a quello di dirigente di questa azienda con stipendio accresciuto di 9 volte, pochi mesi prima della sua elezione a Presidente della Provincia di Firenze. Da allora e per quasi 10 anni (finché non è saltato fuori l'altarino) i contributi da dirigente per un ammontare complessivo di circa 200mila euro li abbiamo pagati noi.
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