La malattia dell'Occidente
In occasione della prima Conferenza nazionale per la salute mentale promossa da Umberto Veronesi nell’ormai lontano gennaio 2001, siamo venuti a sapere che in Italia si suicidano dieci persone al giorno e altre dieci ci provano. Sono passati quasi 10 anni ma i numeri sono ancora attuali: si tratta per lo più di donne e anziani che hanno fatto un deserto della loro speranza. A questi si aggiungono dieci milioni di “sofferenti mentali” che coinvolgono nel loro dolore un non indifferente numero di famiglie italiane. Si tratta di un dolore pesante che rende le vie d’accesso scarsamente praticabili e la speranza di una fine remota.
È un quadro allarmante, non a tutti noto, perché il disagio mentale tende a nascondersi, a non farsi notare, a concedersi lo spazio stretto e non comunicativo della gestione personale. Del resto basterebbe frugare nelle tasche degli italiani che vanno in macchina, in metropolitana, in ufficio, per trovarvi pillole antipanico (due milioni), ansiolitici (tre milioni), antidepressivi (cinque milioni), sonniferi a portata di mano per riuscire a reggere la non qualità di vita che ci siamo costruiti, con un costo sociale equivalente a quello impiegato per le malattie cardiovascolari e doppio rispetto a quello richiesto per la cura del cancro.
Dunque in Italia, ma allargando gli orizzonti possiamo affermare che in tutto l’Occidente l’anima sta male, come ci riferisce l’Organizzazione mondiale della sanità: del miliardo di sofferenti psichici, ben seicento milioni abitano in Paesi industrialmente e tecnicamente avanzati. Inoltre, l’Oms registra un dato ancora più allarmante e cioè che un giovane su cinque in Occidente soffre di disturbi mentali, e ci avverte che nel 2020 i disturbi neuropsichiatrici cresceranno in una misura superiore al 50%, divenendo una delle cinque principali cause di malattia, di disabilità e di morte.
Per inoltrarci in questa problematica, abbiamo sentito il parere dello psicologo e psicoterapeuta Mauro Cauzer. “La nostra società – spiega – è improntata prevalentemente sul concetto di efficienza, in quanto bisogna essere sempre rivolti alla produzione, e per far sì che si riesca a rispettare i tempi ristretti di recupero i farmaci si sono messi al servizio di questo obiettivo. Infatti, il sistema non fa altro che spingere alla produttività cercando di eliminare la non efficacia temporanea con ogni metodo. Dobbiamo apparire sempre attivi e all’altezza di ogni situazione ed è proprio questo artificio che ci può portare all’abuso di psicofarmaci. Siamo terzi in Europa per consumo di farmaci: tra i farmaci rimborsabili i più prescritti in Italia sono gli antidepressivi, mentre tra quelli a pagamento svettano gli ansiolitici. Vi è stato, inoltre, un aumento esponenziale della dose giornaliera di farmaci. Basti pensare che nel 2000 si consumavano 8,2 grammi ogni giorno per mille abitanti, mentre nel 2008 siamo passati a 33,5 grammi di consumo quotidiano”.
Come arginare questo sempre più ampio e profondo disagio? “È necessario – risponde lo psicoterapeuta – fare un passo indietro, partendo dall’educazione. I genitori d’oggi sono troppo permissivi con i propri figli e non li pongono mai di fronte a dei divieti o a delle rinunce. Questo fa sì che i ragazzi, non essendo abituati a gestire la rinuncia e il sacrificio, da adulti non riescano a far fronte ai no che la vita impone loro e quindi non sappiano governare autonomamente, senza la necessità di ricorrere al farmaco, le proprie frustrazioni. Anche se la cultura dell’efficienza ad ogni costo pesa, ci si dimentica tuttavia troppo spesso che lo stress e l’ansia, mantenuti a livelli non patologici, sono naturali e possono rappresentare anche uno stimolo positivo. Per questo motivo diventa importante distinguere una condizione emotiva normale da quella patologica. L’essere tristi dopo un lutto o ansiosi prima di una prova è del tutto normale e non è necessario a tutti i costi cercare di soffocare nell’immediato il sintomo fisiologico, mentre la situazione risulta patologica se il motivo scatenante è del tutto immaginario”. L’antidoto? “Fermarci – conclude Cauzer – e riappropriarci del nostro tempo, riflettere su noi stessi, su dove stiamo andando e del perché siamo sempre pronti a correre verso mete prefissate, spesso inutili”.
Monica Ricatti