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Fratture al femore: ritornare a camminare è possibile

 |  Redazione Sconfini

L’avanzare dell’età porta con sé esperienze e saggezza, ma purtroppo anche un bel numero di problemi fisici. Tra essi uno dei più comuni è l’osteoporosi, che è frequentemente la causa delle fratture prossimali del femore.

L’osteoporosi definisce la situazione in cui lo scheletro è soggetto ad un maggiore rischio di fratture, in seguito alla diminuzione di massa ossea e di microarchitettura. I fattori parziali conosciuti che causano l’osteoporosi post-menopausale e di senescenza sono la mancanza di ormoni sessuali e l’immobilità fisica. Questo disagio (che alcuni medici chiamano malattia, altri solo disordine) si manifesta con il sopraggiungere dell’anzianità.

 

“L’età dopo la quale una persona si può definire anziana – specifica il dottor Paolo Esopi, specialista in ortopedia e traumatologia – è molto variabile e dipende moltissimo dallo stile di vita e dalle condizioni in cui si trova in un determinato momento un paziente”. “In ogni caso – continua – l’anzianità anagrafica inizia dopo i 75 anni, ma non è detto che un individuo, anche di una decina di anni più giovane, non possa essere molto più anziano biologicamente di un arzillo ottantenne”. In sintesi, l’osso di una persona anziana è meno denso di quello di una giovane e pertanto è più fragile.

 

Per questioni ormonali, ma anche a causa di uno stile di vita che ha contemplato poco sport e attività fisica all’aria aperta nelle generazioni anziane precedenti a quella attuale, sono tradizionalmente le donne le persone maggiormente soggette ad osteoporosi. “Le donne – chiarisce Esopi – vivono mediamente più anni rispetto agli uomini ma in passato, per loro, lo sport era un’attività d’élite, mentre l’alimentazione era poco varia e meno ricca di quella attuale. A distanza di 50-60 anni i risultati si vedono, ed è anche per questi motivi, oltre che per quelli ormonali, che l’osteoporosi è più tipica tra le donne”.

 

Il pensiero, associando i problemi alle ossa e l’anzianità, giunge naturalmente sulla frattura al femore, trauma che storicamente si diceva fosse l’anticamera della morte. In un passato non troppo lontano, infatti, la frattura prossimale al femore necessitava di una lunga ed invasiva operazione chirurgica, un periodo di immobilità che portava con sé una seria debilitazione che poteva durare molti mesi. Spesso i più anziani che subivano questa frattura non riuscivano più a riprendersi, indeboliti nel fisico e psicologicamente.

 

“Traumatologicamente per fortuna – afferma Esopi – la tecnologia a disposizione dei medici negli ultimi quindici anni ha fatto un salto di qualità incredibile, riuscendo a rendere ciò che una volta era un dramma un intervento e soprattutto un decorso post-operatorio di routine, al termine del quale quasi tutti gli anziani si ristabiliscono perfettamente e in tempi relativamente rapidi”. “L’esempio più calzante – aggiunge lo specialista – è quello relativo alle fratture pertrocanteriche (una frattura laterale la cui linea di frattura attraversa il massiccio trocanterico, la parte alta del femore, ndr), per le quali la moderna tecnologia prevede un trattamento che si poggia sull’applicazione di un chiodo endomidollare, che può essere in acciaio o meglio in titanio poiché è un materiale meno allergico in quanto non contiene nichel e perché consente di eseguire risonanze magnetiche senza problemi”. Dal punto di vista tecnico, poche ore dopo l’intervento, che in mani esperte può durare appena tra i 15 e i 30 minuti (ma in casi record ci si avvicina ai soli 6-7 minuti), il paziente può tornare ad un carico immediato, quindi a camminare fin da subito. La degenza ospedaliera è irrisoria, il costo sociale (cure mediche, fisioterapia, assistenza in casa, trasferimenti per controlli ospedalieri ecc.) è drasticamente abbattuto e il tempo di recupero funzionale è ridotto.

 

Un altro esempio abbastanza tipico è quello relativo alle fratture al collo del femore. In questo caso, a venire in soccorso degli anziani pazienti è una protesi (cementata o non cementata), che serve a sostituire parzialmente o totalmente l’articolazione dell’anca. “In questi casi – suggerisce Esopi – bisogna ben valutare le richieste funzionali del paziente. Se questo è dedito ad una vita attiva che ha una richiesta funzionale alta, gli si applica un’artroprotesi che garantisce un recupero pieno della mobilità. Se viceversa il paziente ha una vita molto sedentaria è sufficiente un’endoprotesi, ideale per i casi con richiesta funzionale bassa”.

 

Una tipica domanda che molte persone fanno è: ma è la caduta che causa la frattura oppure è la frattura che causa anche la successiva caduta? “Esistono anche le cadute da cedimento, quindi in alcuni rari casi l’osso si rompe e poi si cade – precisa Esopi – ma nella maggior parte dei casi ci si rompe il femore a causa di una caduta”. È inoltre statisticamente provato che una persona che ha subito una frattura al femore sarà soggetta ad un nuovo episodio simile. “Per evitare che ciò accada – sostiene lo specialista – è ormai una prassi, ma in pochi anni diventerà un protocollo, prescrivere dopo l’operazione dei farmaci (alendronati e bifosfonati) che aumentano la densità ossea, limitando così i rischi di nuove fratture”.

 

“Anche nella nostra regione – conclude Esopi – la tecnologia ha raggiunto straordinari livelli, che nulla hanno da invidiare agli ospedali americani, sorprendendoci continuamente con migliorie e innovazioni che spingono sempre più in là il confine della tecnologia medica, che già oggi rende ordinaria amministrazione ciò che fino a meno di 20 anni fa era uno scoglio insormontabile. In operazioni di questo tipo, infatti, le percentuali di recupero, sostenute da un adeguato contorno di servizi sanitari post-operatori e dalle moderne tecniche di riabilitazione fisioterapica, sono ormai elevatissime”.

Giuseppe Morea

  

 In collaborazione con Help!

 

 


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