L'Europa per le donne: esistono le pari opportunità?
“La Comunità ha il compito di promuovere nell’insieme della Comunità, mediante l’instaurazione di un mercato comune e di un’unione economica e monetaria e mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni […] un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, la parità tra uomini e donne, il miglioramento del tenore e della qualità della vita”.
Così recita l’articolo 2 del trattato che istituì la Comunità europea, per la quale la parità di trattamento tra donne e uomini fu, ed è ancora oggi, uno dei principi fondamentali. Esso è presente come presupposto ed obbiettivo già dal 1957, quando il trattato di Roma sancì anche la parità salariale. Si tratta dell’articolo 119 che assicura la parità di retribuzione senza discriminazione fondata sul sesso per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, affermando pertanto l’effettiva e completa uguaglianza tra uomini e donne nella sfera lavorativa.
Quindi viene da chiedersi: l’Unione europea è maschilista? Intenzionalmente ed originariamente, no di certo. Sebbene il tema delle pari opportunità ha avuto, già dagli albori, una sua ubicazione all’interno della cornice europea, le donne guadagnano ancora il 15% in meno rispetto agli uomini e rimangono una minoranza nelle posizioni di responsabilità in ambito politico e fra i dirigenti. È più probabile trovarle in rapporti di lavoro “insicuri” che ai vertici delle carriere. Difatti questo primo passo ha determinato soltanto mutamenti graduali e, nonostante gli sforzi compiuti, una completa parità di opportunità non è stata ancora raggiunta.
Fin dagli anni Settanta le leggi nazionali e comunitarie hanno trattato l’argomento, sviluppando ed applicando diritti di pari opportunità, ma solo dal 2000 il tasso di occupazione femminile ha registrato una crescita costante, portando le lavoratrici europee ad occupare 7,5 dei 12 milioni di nuovi posti di lavoro creati in Europa e raggiungendo oggi il 57,2% della forza lavoro. Questo accade perché a metà degli anni ’90 sono sorti diversi problemi collegati all’applicazione di tali diritti. Ad esempio le vittime di discriminazioni legate al sesso dovevano provare davanti ad un tribunale l’esistenza di tale situazione, ma grazie ad una direttiva che l’Ue adottò per modificare la propria legislazione, ora spetta alla parte convenuta dimostrare che l’attore non ha di fatto subito un trattamento diverso.
Inoltre nello stesso periodo la Corte di Giustizia ha pronunciato due sentenze che dichiaravano le quote in base al sesso, ovvero la discriminazione positiva, contrarie alla normativa europea; con la stipulazione del trattato di Amsterdam queste sono consentite. Congiuntamente a questa disposizione, il trattato di Amsterdam fissa il “mainstreaming” quale obbligo dell’Unione, ciò significa che il tema delle pari opportunità deve essere presente in tutte le politiche ed in tutti i programmi Ue. Questa strategia ha già fissato una serie di obiettivi principali che, sostenuti finanziariamente dai programmi dell’Ue, sono da raggiungere ed attuare entro il 2010 e sono ad esempio l’eliminazione degli stereotipi sessisti ed il raggiungimento dell’indipendenza economica, affinché le donne possano lavorare, avere il proprio reddito e godere di pari diritti alle prestazioni sociali.
Ma se l’Ue interviene attivamente per eliminare la discriminazione e realizzare la parità dei generi, quali sono gli ostacoli che ne impediscono la riuscita? Quali impedimenti incontrano le donne nell’affermare la propria posizione? Presa la popolazione totale dei 27 Paesi dell’Unione, ovvero 497.663.393 individui, per ogni 100 uomini ci sono 104,9 donne (dati Eurostat 2008): ciò significa che più del 50% della popolazione è costituita da donne. Oggi a scuola le studentesse sono più brave dei ragazzi e rappresentano il 59% dei laureati dell’Ue, ma questi dati sembrano non avere sufficiente rilevanza poiché spesso le donne hanno maggiori difficoltà di accesso al credito, per iniziare o ampliare le loro piccole imprese. Alcune stime, infatti, indicano che gli uomini hanno una probabilità tre volte superiore di intraprendere un lavoro autonomo dotandosi di un proprio gruppo di lavoro; le imprenditrici inoltre costituiscono circa l’8% della forza lavoro femminile, rispetto al 16% degli uomini.
Anche destreggiarsi tra la vita privata e quella professionale e conciliare il lavoro con la custodia dei bambini e la gestione familiare rappresenta un grosso impegno, spesso un problema per le donne. Queste difficoltà derivano dal fatto che le responsabilità in ambito domestico sono ancora molto sproporzionate, rendendo più difficile per le donne lo sviluppo della propria carriera. In Europa soltanto il 65% delle donne con bambini piccoli lavora, rispetto al 91% degli uomini.
L’Ue aiuta i cittadini a conciliare le diverse esigenze familiari e professionali e si impegna per creare un migliore equilibrio tra le due sfere, affinché ognuno possa permettersi di avere figli o prendersi cura degli altri familiari senza incorrere in complicazioni di alcun tipo. È ad esempio in questo ambito che anche gli uomini possono godere delle politiche per le pari opportunità. Dato che su tutto il territorio dell’Ue entrambi i genitori hanno diritto ad un congedo parentale di almeno tre mesi in caso di nascita o di adozione, le disposizioni europee garantiscono pari diritti anche ai padri che lavorano ed inoltre permettono loro di fruire di un’aspettativa per occuparsi di un familiare malato o infortunato. Questo vale però solamente per chi lavora nell’ente pubblico o in aziende di grandi dimensioni; nello specifico, in Italia, il settore privato molto polverizzato e composto di piccole e microrealtà aziendali non permette ciò ed il congedo parentale maschile è statisticamente irrilevante.
Gli uomini possono usufruire degli stessi diritti delle donne, ma la cosa non funziona nel verso opposto e le donne devono fare il doppio degli uomini per avere gli stessi risultati. La realtà è che essere donna nel mondo del lavoro è una condizione penalizzante. Per quanto possa essere brava a parità di un maschio, si preferisce l’uomo, poiché rispetto a lui una donna ha molti più pensieri: non c’è solo il lavoro ma anche i figli, la casa, la scuola, la spesa e il cosiddetto “general management” della famiglia che grava su di lei, ed anche se ci mette lo stesso impegno, rischia comunque di venirne fuori peggio.
Quella della parità è una questione di democrazia e di diritti fondamentali e quindi interessa tutti, purtroppo la strada da percorrere è ancora molta lunga ed irta di pregiudizi. Gli enunciati sono buoni ma la messa in pratica è ancora scadente e non permette di affrontare con la dovuta serenità la gestione di una vita sempre più piena di impegni e responsabilità, che molte donne si trovano ad affrontare da sole, senza i necessari aiuti ed ammortizzatori sociali, in particolare quelli legati alla prole.
Martina Pluda