Supercapitalismo: consumatori e non più cittadini
Dal punto di vista economico e sociale, la fase che stiamo vivendo oggi ha avuto inizio negli anni Settanta del Novecento. Le società occidentali avevano raggiunto allora una considerevole opulenza, varcando la soglia di quella che lo storico Eric Hobsbawm ha chiamato età dell’oro. Ma questo risultato è coinciso con l’avvio di un progressivo degrado etico e culturale.
Come sempre, quando la morale scricchiola la capacità di discernimento viene meno, le azioni man mano si corrompono, e presto o tardi le conseguenze si fanno sentire in concreto. Nei corpi delle persone come negli organismi sociali. È una legge storico-fisiologica, direbbe Vico, cui non si può sfuggire.
Negli anni Settanta, la regola dello sviluppo economico è scappata di mano alle élite politiche e finanziarie occidentali. È successo che il libero mercato, da cornice di un benessere diffuso ed equilibrato, si è trasformato in feticcio e ideologia. Si è rinunciato a governare il capitalismo, a temperarlo, a considerarlo il presupposto e lo strumento di un arricchimento non solo materiale ma anche sociale. Sociale in senso lato: teso cioè a non perdere di vista alcuni importantissimi fattori immateriali. I soli che garantiscono l’effettiva qualità della vita democratica di una società, quelli che hanno a che fare con i suoi valori di fondo. Gli unici in ultima analisi a far sì che lo sviluppo si traduca in progresso, per riprendere una celebre distinzione di Pasolini.
Solidarietà, rispetto del lavoro e del merito individuale, cultura come conoscenza delle leggi fisiche del mondo (sapere scientifico) inseparabile da quella dei fondamenti comuni dell’esperienza umana (sapere umanistico), educazione civica come consapevolezza dei diritti e dei doveri di tutti i membri della collettività. Questi i valori basilari che si sono andati sgretolando sotto i colpi di un’ideologia del mercato divenuta criterio fine a sé stesso. La prima responsabile della rincorsa al basso dell’occidente, che precipita gli individui moderni verso la sollecitazione e l’appagamento di quegli istinti di avidità, egoismo, aggressività che ci allontanano dal nostro essere uomini per assimilarci al resto dell’universo animale. Gli antivalori scolpiti sulle tavole del dio mercato.
Dagli anni Settanta dello scorso secolo il capitalismo schizza nella bolla autodivorante della speculazione e della finanziarizzazione. L’onda monta dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, due economie che si aprono ai mercati concorrenziali dei Paesi asiatici in crescita. Nasce così la globalizzazione.
I governi neoliberisti di Ronald Reagan e Margaret Thatcher reagiscono con un insieme di politiche economiche che impostano la competizione sul terreno dei prezzi. Ridurre i prezzi dei propri prodotti significa intervenire sul costo del lavoro. Intervenire sul costo del lavoro significa sfruttare all’osso la mano d’opera del terzo mondo e aggredire i diritti dei lavoratori all’interno delle società ricche: i diritti sindacali a un salario accettabile, a una ragionevole sicurezza del posto di lavoro, a un monte ore regolato, all’assicurazione in caso di malattia, alla pensione per la vecchiaia. E aggredire i diritti dei lavoratori occidentali significa sfidare l’idea e i dispositivi consolidati della cittadinanza democratica.
Come spiega Robert B. Reich, ex ministro del Lavoro di Bill Clinton e uno dei consiglieri economici di Barack Obama, nel suo saggio Supercapitalismo. Come cambia l’economia globale e i rischi per la democrazia (Fazi, euro 25), da allora prende forma una forbice, destinata a divaricarsi sempre di più. È la forbice che inizia a separare la figura del cittadino da quella del consumatore. A scapito del primo e a vantaggio del secondo.
Mentre i diritti sociali vengono gradualmente erosi, mentre la democrazia stessa si va deteriorando per l’azione di lobby finanziarie che tendono a colonizzare i partiti politici trasformandoli in portavoce dei loro interessi e non più di quelli dei cittadini, questi ultimi vengono blanditi con l’accesso a beni di consumo sempre più differenziati (e superflui). Un accesso reso più facile al consumatore proprio in virtù dell’abbattimento dei prezzi, che a sua volta è la causa dell’impoverimento sociale e politico del cittadino. E così il serpente si è morso la coda.
Giunti a questo punto, risalire la china non sarà facile. Aggiungiamo che il problema non investe solo la tenuta democratica ed economica delle nostre società, ma è pienamente mondializzato. L’assottigliarsi delle risorse energetiche, l’emergenza ambientale, la fame e la sete del mondo indicano che è il modello attuale di sviluppo capitalista, è il “supercapitalismo” alla radice a dover essere riformato.
Per prima cosa, la politica dovrebbe riprendersi in mano l’economia. Ma questa politica è incapace di farlo, perché è ridotta a braccio esecutivo delle corporations, delle multinazionali, delle società finanziarie, delle grandi banche e dei loro studi legali (un punto che Reich non coglie in profondità, come nota bene Guido Rossi nella prefazione al libro). Quindi, è prima la società che deve cambiare la politica e rimetterla sotto il suo controllo. A parole forse non si rende l’idea. Il fatto è che questo processo nella storia ha un solo nome e si chiama rivoluzione.
In altre parole, non si tratta più di difendere quello che alle nostre madri e ai nostri padri sembrava acquisito una volta per tutte. Bisogna pensare e agire in vista di soluzioni nuove. E farlo in fretta, per i nostri figli.
Patrick Karlsen