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Motivi per tacere un minuto, o per non farlo

 |  Redazione Sconfini

Un po’ di tempo fa è comparsa sulle pagine dei giornali una notizia che ha suscitato discreto scalpore. In alcune scuole italiane è stato negato il minuto di silenzio per la morte di alcuni soldati italiani all’estero. Questo è stato visto in diversi casi come inaccettabile, in altri, evidentemente, come la cosa giusta da fare.


Una situazione esemplare potrebbe essere la seguente. Ora di italiano. La professoressa sta parlando della Divina Commedia, un edificio più in là il maestro insegna il passato remoto del verbo dire. Tra allegorie dantesche e “io dissi, tu dicesti” arriva una circolare o suona la campanella, e la lezione s’interrompe. Silenzio, o qualcosa di simile a esso.
La pratica del minuto di silenzio è abbastanza comune in Italia. Quando un avvenimento è ritenuto abbastanza drammatico – da chi non è meglio precisato, ma a volte si parla di opinione pubblica – lo si onora nelle scuole interrompendo ogni attività per un minuto, che viene trascorso in silenzio, generalmente in piedi. Si tratta di un’azione volta a tributare rispetto, e come tale dovrebbe essere intesa. Non è raro però vedere gente che non presta la minima attenzione a quello che viene fatto: il minuto di silenzio è un minuto di meritato riposo, ci si rilassa un attimo e poi si ricomincia. E venti facce serie e composte che pensano nell’ordine a come passeranno il pomeriggio, a quanto sia interessante la ragazza a fianco, a quanto è stato ingiusto l’ultimo voto preso.

Pensieri, questi, che rischiano di avere un elemento comico, quando il contesto è di tutt’altro tenore.
Il minuto di silenzio è veramente il rispettoso tributo di cui sopra? Questa è la domanda che sorge spontanea. Che il rispetto sia dovuto, è qualcosa di certamente vero: anche se la nostra Costituzione c’insegna che la guerra è da ripudiare, l’elemento emotivo che offre la vista di un bambino che piange il padre soldato morto è innegabilmente forte. Che questo rispetto debba in qualche modo essere dimostrato pubblicamente, sembra, se non certo, almeno ragionevole, e come tale deve essere trattato. Rimane quindi da definire un mezzo, un come.


Specialmente se la realtà in cui si vive è – per fortuna – lontana dallo scenario attivo della guerra, alzarsi e non fare sostanzialmente nulla non richiede fatica: è facile, si fa in fretta e quindi non toglie (troppo) tempo al resto. Se questa situazione è vissuta attivamente, magari coinvolgendo una riflessione personale sul significato della morte degli uomini che si sta onorando proprio in questo istante, l’utilità che ne viene è innegabile, e ovviamente lo scopo di queste righe non è negarla e mettere alla gogna questa pratica. Semplicemente, spesso queste riflessioni non vengono fatte: pensare a volte è scomodo, è difficile.


Diventa arduo a questo punto marchiare a fuoco come sbagliata la decisione presa da queste scuole. A meno che essa non sia dovuta a luoghi comuni – vale a dire, queste cose non servono a niente, sono solo pagliacciate: e in questo caso, perché non utilizzare la parola vergogna per descrivere questo comportamento, che si presenta esattamente come un caso di pensiero troppo faticoso? – può essere giustificata, se si vuole effettuare realmente un tributo di rispetto. Un’alternativa potrebbe essere l’introduzione di momenti attivi nel senso classico del termine; lo studio e l’analisi di lavori e di pensieri sulla guerra e sulla pace, l’esame di situazioni storiche e testimonianze dal passato. Quelli che piangono un soldato morto potrebbero essere più felici di sapere che meno persone subiranno la loro stessa disgrazia, piuttosto che godere di un minuto di dubbio silenzio e forzato rispetto.

foto: Kristina Flour


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