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Una gita in Carnia: Mozart a Paularo

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Schiamazzanti, sudati, scomposti i turisti degli anni Cinquanta volevano una cosa sola quando lasciavano i pullman che li avevano traghettati da Latisana, Gorizia, Trieste e altre parti del Friuli fino a Paularo: respirare l’aria pura e incontaminata della “Conca d’oro” o “Conca verde”, come veniva chiamata la Val d’Incarojo.

Si dice che di sabato potevano capitare anche cinque di quei colossi su ruote, tutti strapieni. “E pensare che allora c’era solo la vecchia strada non asfaltata che passava per Salino”, racconta Tonino Poiarsi grattando la erre, mentre ci fa da cicerone per il paese.

 

Facile per quei gitanti… avessero provato l’ebbrezza di una Vespa verde bugesa con qualche problema di accensione, magari con i 12 gradi da fermi, non sarebbero probabilmente capitati a frotte in terra carnica. Ma se si è sprezzanti del vento risucchiato dalla pelle, indifferenti alla temperatura frigorifera della crociera e rassegnati a una ricaduta strutturale della Vespina (ormai al suo quinto viaggio in Carnia), si può entrare in paese perfino accompagnati dalla colonna sonora di Rocky I, sfumata ben presto dalla voce del signor Poiarsi.

 

> IL SIGNOR T.

“Il cappellano un giorno mi disse: «Tonino, devi tesserare tutti i ragazzi del paese, qui non c’è la giovanile di calcio!». E io allora ne ho tesserati novanta”. Da allora l’associazione sportiva Velox, che il signor Poiarsi ha fondato nel 1961, ha raccolto diverse importanti vittorie, fra le altre tre titoli carnici di calcio, quattro nazionali di sci e numerose marce.

 

Paularino doc, il signor Tonino porta benissimo i suoi settant’anni. Occhi azzurri sempre ridenti, capelli folti e bianchi, sarebbe l’orgoglio del nonno, barbiere negli anni Quaranta, che faceva barba e capelli anche ai Cosacchi. “Come dopobarba – ricorda Tonino – il nonno usava alcool puro da settanta, novanta gradi fatto in casa e capitava che i mongoli (come li chiama lui, ndr) lo volessero bere”. Certamente qualcuno l’avrà pure fatto, evitando così il surgelamento nei rigidi inverni, fintanto che il fegato gli avesse retto.

 

> ECHI DI PALAZZO

Dal nostro fisico, invece, momentaneamente ci si dissocia e si continua l’esplorazione. Superata Piazza Nascimbeni, è impossibile non notare un imponente relitto di cemento, il fu Hotel Impero. Chissà quale personalità o quanti villeggianti ha ospitato questa istituzione, oggi in fase di implosione, durante i suoi anni d’oro. Di color senape, scrostato e cadente, aspetta paziente di essere acquistato e rimesso a nuovo da qualcuno. Se ci fosse ancouna stanza del Museo ra l’imprenditore carnico Jacopo Linussio forse lo trasformerebbe in una delle sue fabbriche di tessuti. Noi non abbiamo le risorse sufficienti e quindi proseguiamo per Villafuori, borgo natio del signor Poiarsi.

 

Lo si raggiunge in pochi minuti, affrontando strada Chiamburian, una ripida scalinata di pietre e ciottoli. L’erta lascia sfiatati davanti a Palazzo Valesio Calice, uno dei tanti palazzi eredità della Repubblica di Venezia che la Carnia conserva intatti. Strutture massicce e signorili, che hanno resistito a intemperie, guerre e terremoti, quasi protette dal calice, lo stemma di famiglia.

 

Vedendoci infreddoliti e col fiato corto, il signor Tonino, non particolarmente affaticato, suggerisce un toccasana di cinquanta gradi fatto col “melès” come chiamano da queste parti il sorbo montano: “Vi ci vorrebbe proprio la nostra grappa medicinale”. I dintorni risulterebbero sicuramente sbiaditi dopo qualche bicchiere di questo nettare… per ora meglio il verde scuro dei boschi di Paularo che, visti da Palazzo Valesio Calice, riescono a inghiottire anche stavoli in rovina e qualche campo. Un tempo erano abitati e coltivati. Molte famiglie avevano il loro pezzo di terra fra quei monti. Più di qualcuno, però, per sopravvivere era stato costretto a chiedere prestiti ai vicini, consapevole che difficilmente avrebbe potuto restituire le somme. Quando così capitava, il creditore si prendeva il campun organo del Seicentoo, che però quasi mai riusciva a gestire e che quindi in poco tempo diventava incolto. “Robe robade pocje durade, si dîs di chês bandis” (trad. “Quello che si ruba dura poco, si dice da queste parti”), recita con occhi sorridenti Tonino, continuando a camminare.

 

> MOZART A PAULARO

Per questi vialetti stretti ci starebbe bene anche la Vespina, che invece poltrisce giù in paese. Aspetta paziente mentre ci si dirige verso Casa Scala, sede de “La Mozartina”, un museo di proprietà del Maestro Giovanni Canciani, dedicata agli strumenti musicali antichi. “Museo” evoca in genere immagini ottocentesche, stanze enormi, buie, con teche di oggetti e animali che guardano inossidabili e tetri il visitatore. “La Mozartina” è invece una casa signorile arredata in stile classico e carnico, ricca di suppellettili, di storia e d’atmosfera familiare.

 

Superata la sua soglia, non si è più nel 2007. Si è invece ospiti settecenteschi davanti a una tazza di tè e dei pasticcini a godersi i racconti e la musica che il padrone di casa suona per noi. Ed è proprio così, ad esclusione della merenda, “perché – spiega il Maestro Daniel Prochazka – ogni singolo strumento, per quanto antico, è funzionante”. Lo si scopre subito nella stanza-foresteria al pianterreno quando il Maestro si siede davanti a un organo del ’600 e comincia a suonare, ripetendo l’operazione in ogni stanza su ogni piano della casa; si sofferma su alcuni degli strumenti e accenna una melodia. “In tutto ci sono una cinquantina di pezzi, ognuno con una sua storia”, sottolinea Prochazka continuando la dimostrazione. Si riesce così ad intuire il suono di un fortepiano, di un armonium, di un clavicembalo e si ascolta con stupore il canto scollato direttamente dagli spartiti di due graduali.

 

> LA MAMMA DI PAULARO

Quando rientriamo nel XXI secolo ci attende la pioggia, sottile, fastidiosa. Ci sono circa tredici gradi. Prima di svegliare la bugesa per rientrare a Udine, ci manca un’ultima tappa: la casa di Marianna Venier, la mamma di Paularo. Morta nel 1976 a ottantasei anni, “Tati”, come la chiamavano i compaesani, in cinquant’anni da ostetrica ha fatto nascere in casa, nei campi o in stalla, visto che le donne lavoravano letteralmente fino al giorno del parto, circa 5.000 Paularini, fra i quali anche il signor Tonino.

 

> COME ARRIVARE

Imboccare l’autostrada A23 Palmanova-Tarvisio fino all’uscita “Carnia”, dirigersi poi a Tolmezzo e proseguire verso Arta Terme, e dopo qualche chilometro svoltare a destra al bivio per Paularo.

 

> CHI CONTATTARE

“La Mozartina” è visitabile su appuntamento telefonando allo 0433.70162.

Ivana Macor

 

 

SCARPÈTS À PORTER

 

Gli scarpez, le calzature tradizionali carniche, dal 1986 sono diventate calzature d’alta moda con tanto di marchio MADE IN FRIULI registrato presso la CCIAA di Udine (vedi sito www.scarpetaporter.it). Due paia, uno da donna e uno da uomo, fatte a mano da artigiani Paularini, sono conservate presso il museo della scarpa di Toronto, mentre la fantasia di qualche insegnante di italiano per stranieri olandese ha partorito una lezione di lingua italiana a livello avanzato dedicata agli scarpez e alla loro storia. Qui di seguito riportiamo il testo della lezione, consultabile anche sul sito www.italie.nl/algemeen/taal/lezioni-italiano/friuli.php.

 

«SCARPÈTS À PORTER (Scarpez, scaffets o furlane). Punte all’insù, di velluto, di seta, di lino o con ricami raffinati, richiamano l’India o l’Arabia, ma queste esotiche scarpette sono italiane, italianissime, sono gli scarpets friulani o semplicemente chiamate le furlane. Non sono né ciabatte, né scarpe, né pantofole, e neanche espadrillas, ma sono originalmente antiche calzature carniche, cioè della regione Nord-Est dell’Italia, la Carnia. Questa calzatura unisex può essere portata con il tallone sollevato o abbassato e può essere portata in casa ma anche fuori. Gli scarpets sono cuciti completamente a mano e una volta questo lavoro era fatto in casa dalle donne. Oggi a produrli sono rimasti ormai pochi artigiani in Friuli. Originalmente la tomaia era in velluto, ma oggi se ne trovano di tutti i tipi di stoffa. L’interno della tomaia deve essere rivestito con uno strato di juta, ma la caratteristica forse più particolare è la suola, che deve essere assolutamente fatta con copertone di bicicletta usato. Per questo motivo, sono le classiche scarpette portate anche dai gondolieri veneziani, perché la suola di gomma evita loro il rischio di scivolare. I copertoni usati sono ormai difficili da trovare, ma ancora oggi alcuni anziani girano il Friuli alla ricerca di questa materia preziosa. Gli scarpets rappresentano l’ingegno friulano e la volontà di non sprecare risorse preziose. Dodici anni fa, Deda Meriggi, titolare di un negozio di scarpe milanese, ha avuto l’intuito del potenziale successo degli scarpets friulani e dopo aver registrato questo prodotto all’ufficio marchi di Roma con il nome di “scarpèts à porter”, li ha esposti nella vetrina del suo negozio. Da allora il loro successo è stato strepitoso e gli scarpets vengono portati durante le sfilate di moda di diversi stilisti tra cui Dolce & Gabbana e Giorgio Armani. Oggetto di desiderio di molte donne, si vendono oggi a prezzi esorbitanti nei negozi eleganti di Firenze, Venezia, Milano e Roma. Naturalmente si vendono anche in Friuli, per esempio a Udine si possono trovare sulle bancarelle di via Zanon o da Quendolo in piazzetta Matteotti. Girando per l’Italia però, e facendo attenzione, gli scarpets originali in velluto si possono, ancora oggi, scovare in piccoli negozietti anonimi a prezzi normali. Ma attenzione alle imitazioni del tipo industriale, che spesso vengono prodotte in Cina».

 

 
In collaborazione con Help! 

 

 

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