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Tra il Livenza e il Tagliamento spunta Manazzons

 |  Redazione Sconfini

Ore 10 del mattino: bussola, cartina e ombrello alla mano, siamo pronti per affrontare i 20 chilometri di cammino che ci aspettano. La bussola è fondamentale perché abbiamo deciso di percorrere, in linea retta attraverso i campi, la distanza che separa Colloredo di Monte Albano da Manazzons di Pinzano al Tagliamento, nelle valli pordenonesi tra il Livenza e il Tagliamento. Per la precisione, linea retta significa guardare l’orizzonte e cercare di raggiungerlo, passando sopra a tutto quello che c’è nel mezzo.

La partenza è sempre particolare. Sembra di stare nel giardino di casa, e solo quando s’inizia a sconfinare, magari trovandosi qualche fosso davanti, ci si rende conto che il viaggio è iniziato e che, se si vuole tornare indietro, è meglio deciderlo in fretta perché più si aspetta e più strada si deve percorrere da soli per ritornare all’ovile.

 

S’incomincia così ad affondare le delicate caviglie nelle zolle umide sperando di recuperarle ad ogni passo, senza trascurare i fossati, che delimitano gli ettari di terra coltivata, a volte asciutti a volte pieni d’acqua, che prima o poi si devono affrontare, visto che non c’è modo di aggirarli. In altre parole, si saltano. Si prende la rincorsa e … oplà … i nostri 60 chili (se va bene), a cui vanno aggiunti 8-9 chili di zaino sulle spalle, si librano leggiadri nell’aria planando a poche decine di centimetri.

 

Non tutti però hanno una buona mira, e capita pure che qualcuno calcoli male la distanza e le proprie capacità fisiche… In volo la farfalla si trasforma in bisonte delle praterie friulane, tenta il recupero in extremis, ma piglia la sponda, scivola nel limo erboso e si spetascia rovinosamente nell’acquitrino, sbattendo la testa su un legno sporgente.

Cose che capitano, certo, ma ora questo nostro coraggioso compagno di avventure dovrà sorbirsi i rimanenti chilometri (sono ancora 11…) con un bernoccolo sulla fronte e bagnato fradicio fino alle ginocchia.

 

Il fascino dell’avventura, comunque, non si smorza nonostante gli inconvenienti, le vesciche ai piedi e la pioggerellina sottile e persistente. La loquacità iniziale ha lasciato il posto all’essenziale battuta o richiesta di informazioni sui chilometri mancanti.

 

È interessante osservare lentamente come varia il paesaggio. La prospettiva di quei luoghi, che normalmente percorriamo con la macchina a poche decine di metri sulle statali adiacenti, è diversa. Sembra di stare in un altro Paese. Il territorio brullo si alterna a prati e campi coltivati, che diventano sassosi a mano a mano che ci si avvicina alla Val d’Arzino. Attraversiamo perfino un tratto lunare, alla Dylan Dog, di una torbiera. Un impressionante susseguirsi di alberi sradicati e radici esposte a marcire negli acquitrini, circondati da campi seminati, sentieri e ferrovia ad un binario.

 

Sono le quattro del pomeriggio, non ce la facciamo più. Basta!

S’intravede il tratto di strada statale del ponte di Cimano, alle porte di Cornino (Udine), e noi ci affrettiamo a raggiungerla. Dopo il ponte, all’altezza del cartello toponomastico di Cornino, ci sembra di assistere a un miraggio collettivo. Sulla sinistra ci appare una stazioncina ferroviaria in tutta regola. Spuntano i sorrisi. Sì, prendiamo il treno, ovunque conduca, meglio se verso Udine. Purtroppo la linea in questione, la Gemona-Sacile, ha un servizio, come dire, dilatato… e il prossimo mezzo passa di lì a due ore. Disfatta.

 

Ci accampiamo nella cabina d’aspetto, davanti alla quale c’è un laghetto di pesca sportiva, che curiosamente confina con una cava di ghiaia. Dal cappello magico fuoriescono formaggio, salame, pane, noci, pere, cioccolata e vino, che ci rinfrancano dalla visione nera degli ultimi venti minuti.

 

Riprendiamo colore e il nostro buonumore, in sintonia con la scritta a gesso sulle traverse della cabina: “If you want to be a hippy, put a flower on your pippi”. Chi capisce un minimo d’inglese apprezzerà la poesia, chi non lo sa apprezzerà la grafia. Decidiamo di proseguire, ma questa volta lungo la ferrovia. Mancano ancora 8 chilometri a Manazzons, circa 3 ore, ce la possiamo fare. Il tempo, infatti, è cambiato: si è schiarito il cielo e fa caldo.

 

Il prossimo treno passerà fra più di un’ora. In fila indiana camminiamo sul lato sinistro dei binari. Non c’è sentiero. Intorno a noi è tutto verde e in fiore, non passa quasi nessun’auto nella stradina asfaltata che corre parallela alla ferrovia e che porta alla nostra meta. Spunta un serpentello che, spaventato dagli urli della prima ragazza della fila, se ne scappa fra i sassi che sostengono le traversine. Quando vediamo il cartello giallo con su scritto Flagogna, scendiamo il pendio fino al ciglio della strada e, attraverso gli ultimi metri di prato, arriviamo al paese.

 

Come sempre incappiamo in strane situazioni o che noi supponiamo tali. All’imbocco di Flagogna, incominciano a venirci incontro ad una velocità esagerata un paio di moto della polizia con i lampeggianti. Siamo perplessi nonostante la spossatezza. A ritmo sostenuto si susseguono altre moto e auto della polizia di stato. Che succede? Passa il presidente della Repubblica? Dopo la prima bicicletta capiamo. È una gara di ciclismo, un evento importante visto lo spiegamento di forze: una sequenza pazzesca di auto e atleti a 50 chilometri orari attraverso una stretta strada di montagna.

 

È troppo. Che ci salvino gli amici a questo punto. Nella natura incontaminata spunta un cellulare, ancora di salvezza di questo branco di pigri allo sbaraglio. Evviva, entro mezz’ora siamo salvi. Di corsa al baretto, presto. E qui, tra un gelato e l’altro, ci raggiungono i rinforzi.

 

Ma… e Manazzons? E il nostro progetto? Beh, per arrivarci ci arriviamo, ma in machina. Ci aspetta sul cucuzzolo di una collina verde, tutto abbarbicato su un’ampia valle, attraversato da un’antica strada che pian piano si restringe a una corsia. È ormai buio e siamo affamati, così lasciamo le auto fuori dal paese e raggiungiamo la trattoria da “Ivana e Secondo”. Ci par di rinascere. Vecchietti che battono carte, musica jazz e due ragazzi al banco circondati da una serie impressionante di grappe. Ci scatta la curiosità e le contiamo: sono 100 bottiglie, fra le quali infusi e grappe di produzione casalinga. Scopriamo di essere capitati in un posto speciale, il cui proprietario è un “Grand’Esperto della grappa e delle acquaviti”. Purtroppo la cucina è chiusa. Ci accontentiamo dell’affettato nostrano tagliato con un’affettatrice Berkel’s rossa a manopola del 1931. A quel punto decidiamo di ritornarci, soprattutto per pranzare godendo del panorama che intuiamo si veda dalla terrazza sospesa sulla valle.

 

Ivana Macor

 


In collaborazione con Help! 

 

 


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