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Il test di screening

 |  Redazione Sconfini

Uno dei più grandi successi della medicina del nostro tempo è stato quello di introdurre nella pratica clinica e nella mentalità della società il concetto di prevenzione. All’inizio del ’900, chi si ammalava di tumore era destinato a morire. Oggi possiamo dire che in più del 60% dei casi di tumore si guarisce.

Un caso emblematico è quello del tumore della mammella. Fino agli anni ’70 tutti i tumori della mammella venivano diagnosticati perché la donna, od il suo medico curante, palpavano un “nodo” anomalo nella ghiandola. Quasi sempre a questo stadio era necessario effettuare l’asportazione del seno e dei linfonodi dell’ascella, con esiti spesso deturpanti. Nonostante ciò, il tumore poteva comunque ripresentarsi; spesso, se prima dell’intervento era già in grado avanzato. Attualmente la diagnostica è radicalmente cambiata, grazie all’istituzione di comportamenti preventivi: i test di screening.

Su questo tema abbiamo sentito la dottoressa Franca Brizzi, responsabile dal 1998 del Servizio di Senologia dell’U.C.O. (Unità Complessa Operativa) di Radiologia dell’Ospedale di Cattinara (Trieste).

“Lo screening – spiega – è un intervento mirato e selettivo, basato sul ragionamento che esiste un’incidenza tipica della patologia che c’interessa (nel nostro caso il tumore alla mammella) per sesso, classe, età, fattori di rischio (familiarità, stile di vita, farmaci assunti). Il target dello screening per il tumore della mammella sono le donne sopra i 50 anni, in periodo perimenopausale, fino ai 70 anni circa. È questo il periodo della vita in cui ci si ammala più frequentemente di tumore mammario”.

screeningSecondo i dati riportati dalla Brizzi, questa patologia colpisce in Italia circa 30.000 donne all’anno, di cui 13-14.000 tra i 50 ed i 70 anni, ma circa 8.000 hanno un’età inferiore ai 50 anni. Le stime d’incidenza dimostrano valori più alti al Nord, dove c’è una prevalenza del 30-35%, rispetto al Centro-Sud. Tali differenze geografiche si stanno però riducendo e sono confinate ormai alle fasce d’età superiori a 50 anni. Nelle donne più giovani l’incidenza è simile in tutta l’Italia.

“Quali siano i fattori per cui si sta abbassando l’età d’incidenza di questa neoplasia non è chiaro (ambientali? alimentari? stile di vita?). Certo che quali essi siano, il problema ha una notevole rilevanza sociale. Le donne giovani, infatti, lavorano e spesso hanno una famiglia. Si può quindi capire il grosso danno sociale e lavorativo se una di esse si ammala”.

L’efficacia degli screening si misura sulla scoperta di tumori in fase precocissima (dimensione inferiore al centimetro, non palpabili) od addirittura precancerosa. Questo rilievo consente, nella maggioranza dei casi, la guarigione definitiva e comunque la preservazione, con tecniche chirurgiche adeguate, dell’immagine del seno femminile. Un passo in avanti importantissimo se si tiene conto delle conseguenze psichiche che comporta un intervento di questa portata.

La metodica di primo livello per lo screening è semplice: la mammografia.

“Questo è un esame ottenuto con tecnica standardizzata – precisa la dottoressa Brizzi – ed ormai acquisita da decenni, che consente l’esplorazione della mammella nella sua completezza e che offre la massima sensibilità, in particolare per tumori in fase iniziale nelle ghiandole non dense. Tale indagine deve essere eseguita con apparecchiature dedicate e metodologia adeguata”. La Brizzi sottolinea poi come, attualmente, l’uso di mammografi a tecnologia digitale consente di ottenere in tutti i casi, qualsiasi sia la struttura della ghiandola in esame, delle immagini di qualità standard medio elevata, tali da percepire con maggiore facilità le alterazioni presenti. Esiste, inoltre, una relativa riduzione di dose radiante legata sopratutto alla maggiore sensibilità del sistema ed all’assenza di ripetizione di mammogrammi per errori tecnici di esposizione.

Attualmente nel presidio ospedaliero di Cattinara, nell’U.C.O. di Radiologia, nella Sezione di Senologia, è in funzione un mammografo digitale di nuovissima concezione, unico in regione e tra i primi in uso in Italia.

La mammografia, a volte, va integrata con altre indagini (ecografia – secondo livello), soprattutto nelle donne che presentano un seno denso, vuoi per la giovane età, vuoi per l’uso di terapie ormonali in menopausa, situazione oggi sempre più frequente. Qualora venga riscontrata un’alterazione, generalmente si procede con altre indagini (prelievo con ago, risonanza magnetica, scintigrafia). I risultati, infine, consentono di decidere l’iter successivo. Se ci troviamo di fronte ad una lesione sospetta o maligna si prospettano varie strade. La più frequente è l’intervento chirurgico.

“Quello che è importante sottolineare – conclude la Brizzi – è che oggi le prospettive di escissione sono molto cambiate. Infatti, attualmente, gli interventi al seno sono sempre più rivolti alla conservazione dell’organo, favorendo approcci integrati con chemio e radioterapia”.

L’anticipazione diagnostica consente, infatti, l’attuazione d’interventi chirurgici conservativi, tra cui: la tumorectomia, la resezione mammaria ampia (o tumorectomia allargata) e la quadrantectomia, che è la più diffusa. Quest’ultima è stata realizzata la prima volta a Milano dal prof. Umberto Veronesi e sono intercorsi ormai più di 20 anni dal primo intervento. Gli studi clinici pubblicati su prestigiose riviste scientifiche internazionali, come il New England Journal of Medicine, ne hanno dato la conferma definitiva: la quadrantectomia, seguita dalla radioterapia sulla mammella residua (la cosiddetta QUART), è comparabile alla mastectomia radicale in termini di sopravvivenza globale e libera da malattia, e comporta un risultato estetico ed un impatto psicologico sulle pazienti più soddisfacente.

Negli interventi chirurgici conservativi è necessario eseguire anche la dissezione dei linfonodi ascellari, che sono una delle possibili sedi di localizzazione tumorale. Anche a tale livello vi è stata negli anni un’evoluzione della tecnica chirurgica. Inizialmente veniva sempre eseguita l’asportazione di tutti i linfonodi dell’ascella, che sono suddivisi in tre livelli anatomici; oggi è possibile limitarsi alla dissezione ascellare del I livello od alla biopsia del linfonodo sentinella, cioè del primo linfonodo che riceve la linfa direttamente dal tumore. Nel caso di linfonodo sentinella “negativo”, cioè privo di cellule tumorali nel suo contesto, non si ritiene indicata la dissezione ascellare poiché anche gli altri linfonodi ascellari sono generalmente esenti dal tumore. Si evitano così i danni funzionali e l’edema del braccio che l’asportazione ascellare completa in alcuni casi può determinare. Tale metodica comporta una stretta collaborazione tra chirurgo, medico nucleare, radiologo ed anatomo-patologo, e viene correntemente attuata a Trieste.

Si è accennato, in precedenza, alla radioterapia come parte integrante dell’approccio terapeutico conservativo. Il rischio relativo di recidiva nella mammella dopo la radioterapia viene ridotto del 75% circa rispetto alla sola chirurgia conservativa. Anche dopo la mastectomia totale vi può essere l’indicazione alla radioterapia, in situazioni specifiche e ben delineate.

Come per la chirurgia si è passati nel tempo ad interventi sempre meno demolitivi, e così in campo radioterapico si è sentita l’esigenza di sperimentare trattamenti più conservativi, ai quali indirizzare i casi di tumore mammario a basso rischio di recidiva loco-regionale.

È stata recentemente intrapresa “l’irradiazione parziale della mammella”, che mira a controllare la malattia tumorale a livello della sua sede iniziale e nei tessuti immediatamente adiacenti, nelle sedi cioè a più elevato rischio di ricaduta. L’irradiazione parziale della mammella, considerata ancora in fase sperimentale, può essere eseguita con la radioterapia esterna, con la brachiterapia e più di recente con la IORT, ovvero la radioterapia intraoperatoria.

“I dati epidemiologici – spiega la dottoressa Cristiana Vidali, dirigente medico presso la Struttura Complessa di Radioterapia dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Trieste – dimostrano che l’incidenza del carcinoma della mammella è in lieve ma continuo aumento negli ultimi anni, mentre la mortalità è andata progressivamente diminuendo. Questo risultato importantissimo è l’espressione sia della diagnosi precoce che del miglioramento dell’approccio terapeutico. La terapia adiuvante sistemica ha contribuito in modo determinante all’aumento della sopravvivenza, soprattutto nelle donne considerate ad alto rischio”.

La dottoressa Vidali sottolinea ancora come l’introduzione nella pratica clinica di nuove classi di farmaci chemioterapici (antracicline, taxani) ha ridotto significativamente il rischio di recidiva e di morte nelle pazienti con malattia limitata.

“Anche la terapia ormonale – aggiunge la dottoressa Vidali – ha fatto notevoli passi in avanti negli ultimi anni, sia per quanto riguarda il tipo di farmaci impiegati che la loro modulazione. Si comprende, dunque, come la gestione delle donne affette da carcinoma della mammella sia di tipo multidisciplinare. La valutazione di ciascuna paziente dovrebbe essere effettuata collegialmente da un gruppo di specialisti competenti nel settore: il radiologo, il chirurgo, l’anatomo-patologo, il radioterapista e l’oncologo medico, che individuano la corretta indicazione ai trattamenti”.

Per concludere, va detto che la paziente deve essere coinvolta nella scelta della strategia terapeutica: il suo consenso è obbligatorio, e può derivare solo da una corretta informazione sulle opzioni terapeutiche, sulle diverse fasi del trattamento, sulla tossicità e sui risultati. Alla luce del costante miglioramento della sopravvivenza, infatti, assume un ruolo di primo piano l’attenzione alla qualità della vita, da considerare come un aspetto centrale nella gestione globale della paziente.

Silvia Stern

 

 

 

 

 

 

 

 


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