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Thomas Millot

Centrali nucleari, non nel mio giardino

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Il risultato inequivocabile del referendum del 12 e 13 giugno scorso sul nucleare può essere letto in molte maniere, ma quello più elementare è che l’uso pacifico di questa fonte energetica alternativa è ritenuta un reale pericolo per la salute e per l’ambiente, come in modo diverso, per modi e tempi, hanno dimostrato gli incidenti di Chernobyl del 25 aprile 1986 ed a Fukushima dello scorso 11 marzo.

Da numerosi incontri e dibattiti scientifici che si sono tenuti sull’argomento ne deriva che: l’energia nucleare non è conveniente per l’economia della Nazione (in regime di libero mercato non è concorrenziale: o ci mette i soldi lo Stato o non si può fare), non permette uno sviluppo di progettualità nei settori delle energie rinnovabili, rimane irrisolto il problema dello smaltimento delle scorie radioattive che tali rimangono per migliaia di anni; anche le tecnologie “di quarta generazione”, solo futuribili, non sono a prova di attentato terroristico; la contaminazione di vaste aree per lungo tempo dopo un incidente atomico, compromette il futuro delle generazioni a venire e non solo di quella attuale. Nel conto finale dell’energia nucleare bisogna poi includere gli elevatissimi costi economici sociali e politici richiesti dalla necessità di sorvegliare e rendere inoffensive queste scorie per un tempo praticamente infinito! I calcoli sulla sicurezza delle centrali nucleari si basano su simulazioni che non hanno confronti con la realtà. Se non quando capitano incidenti, come è accaduto a Chernobyl e in Giappone: a quel punto centinaia di migliaia di persone vengono evacuate. Chi calcola gli enormi danni sanitari e psicologici? Analizziamo ogni punto o meglio offriamo spunti di analisi: il tema ha risvolti sanitari, ambientali, economici e filosofici e ci si limiterà qui a suggerire, in sintesi estrema, alcune riflessioni e alcune informazioni. Molti contributi e molte informazioni non concordano perché l’uso è strumentale e ideologico: dalla sintesi e dallo stimolo a documentarsi, ognuno potrà consapevolmente farsi un’opinione personale. L’evento occorso in Giappone è tanto recente che i dati degli effetti sanitari e ambientali non sono neanche ipotizzabili: ogni giorno si susseguono rilievi, nessuno dei quali è incoraggiante. Al precedente disastro di Chernobyl, che non potrebbe nemmeno definirsi “incidente”, contribuirono numerose cause, la prima delle quali riguarda la costruzione della centrale, che era priva di alcune indispensabili strutture di sicurezza a cominciare dalla mancanza di una protezione di cemento armato sovrastante il reattore. La seconda era relativa ad un difetto del reattore stesso che diventava instabile quando la potenza era troppo bassa. Se tutto ciò è vero, è vero anche che la causa determinante del disastro deve essere ricercata nel fattore umano, poiché i tecnici in quello sciagurato 25 aprile 1986 commisero una serie di errori e negligenze molto gravi contravvenendo a precise norme operative, come quella di disattivare i sistemi che avrebbero dovuto bloccare il reattore in caso di pericolo. Gli esperimenti dei tecnici, che nelle loro intenzioni avrebbero dovuto aggiungere sicurezza al reattore, finirono per provocare l’esplosione dello stesso. Si trattò di un’esplosione simile a quella di una grossa caldaia, ma il danno maggiore fu provocato dalla combustione della grafite, un materiale che aveva la funzione di rallentare i neutroni diretti contro i nuclei degli atomi di uranio. Una parte del complesso radioattivo presente finì nell’atmosfera trascinata dal fumo denso e caldissimo che si era formato in seguito all’incendio: molto ricadde in vicinanza della centrale, ma una certa quantità raggiunse l’alta atmosfera da dove i venti la spinsero in zone anche molto lontane dal luogo della sciagura. Raggiunse infatti l’Europa e anche l’Italia. A più di vent’anni dalla tragedia sono stati diffusi i risultati di diverse ricerche (molto contrastanti), fra i quali un rapporto di 600 pagine redatto dal Chernobyl Forum, un gruppo di ricerca che per quel lavoro si avvalse della collaborazione dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), della Fao (Food and agriculture organization), organismo dell’Onu incaricato di provvedere ai problemi connessi all’alimentazione e allo sviluppo dell’agricoltura, dell’Iaea (International atomic energy agency) e della Banca mondiale, oltre che dei governi dei principali Paesi colpiti: Bielorussia, Russia e Ucraina. Il rapporto traccia un bilancio dei danni effettivi dell’incidente e fornisce una risposta ad alcuni interrogativi quali il numero reale dei morti, il tipo di malattie indotte dalle radiazioni e infine le conseguenze socio-economiche e ambientali di quel disastro. Il risultato più sorprendente del rapporto riguarda il numero dei morti, un numero non confrontabile con quello riportato dagli organi che parlarono di centinaia di migliaia di vittime, una cifra di gran lunga superiore a quella che avrebbero provocato le due bombe atomiche sul Giappone. Si trattava di informazioni manipolate? I documenti ufficiali parlano invece di due morti nell’immediatezza del disastro e di 240 persone, fra addetti alla centrale e pompieri accorsi sul posto per spegnere l’incendio, che vennero pesantemente irradiate. Di queste ultime 30 morirono nei giorni successivi all’intervento sul luogo dell’incidente, altre 20 negli anni successivi. Fra la popolazione civile i bambini furono quelli che subirono i danni più gravi per avere respirato l’aria contaminata e consumato latte. Nell’aria e nel latte era presente lo iodio radioattivo che, se ingerito, si accumula nella tiroide, una ghiandola endocrina molto attiva nei giovani. Per fortuna il periodo di dimezzamento di questo elemento radioattivo è di soli otto giorni per cui, in un breve lasso di tempo, la sua presenza nel corpo delle persone era quasi scomparsa. Entrare nello specifico della tossicità e degli effetti immediati e tardivi (tumori, leucemie, effetti ereditari), significa considerare degli effetti dovuti a una contaminazione dell’organismo (per inalazione o ingestione). Dopo l’incidente di Chernobyl, tuttavia, malgrado i molti dati raccolti, gli studi epidemiologici realizzati da un gruppo di studiosi indipendenti (medici) in Bielorussia non furono riconosciuti dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Tali studi, frutto di monitoraggi sistematici sui bambini, attestano la presenza di frequenti gravi patologie cardiovascolari in coloro che sono cresciuti nelle zone contaminate, proprio in seguito all’accumulo, nel muscolo cardiaco, di Cesio-137 rilasciato nell’incidente di Chernobyl. Si registrarono circa 4.000 casi di tumore alla tiroide che provocarono la morte di 15 bambini mentre gli altri si salvarono, anche se i ragazzi sono sottoposti tuttora a controlli periodici perché la presenza dello iodio nella tiroide può provocare l’insorgere del cancro anche a distanza di decine di anni. Ma è ingiusto e riduttivo fermarsi ai morti accertati perché vi sono anche le persone irradiate da piccole dosi che potrebbero nella loro vita contrarre tumori o la leucemia. Le agenzie specializzate dell’Onu hanno calcolato che il numero totale delle persone che vivevano nelle regioni contaminate dall’incidente dovrebbe aggirarsi sui sei milioni di unità, ma la maggior parte di esse è stata esposta ad un livello di radiazioni molto basso se posto a confronto con quello dei territori naturalmente radioattivi, come lo sono ad esempio in Italia l’isola d’Ischia o la zona del Tarvisiano. Fra tutte queste persone potrebbero verificarsi 9.000 casi mortali di tumori nel corso della loro vita che viene stimata in 80 anni. Le statistiche ci dicono che attualmente oltre il 25% della popolazione muore di cancro: la percentuale dei tumori causati dal disastro di Chernobyl è quindi impercettibile, rappresentando solo lo 0,6% dei casi accertati. Attualmente nel mondo i reattori in attività sono 437 (55 in costruzione): in Europa le centrali nucleari sono oltre 150 e soddisfano il 36% del bisogno elettrico e la Francia, con l’80% di produzione di energia elettrica dal nucleare, ne detiene il primato. Il problema immediato più grave rimane quello dei rifiuti. In tutti i Paesi in cui si fa uso di nucleare sono stati individuati siti adatti per la conservazione delle scorie radioattive. Queste vengono prima “vetrificate”, quindi chiuse in robusti recipienti di acciaio e sistemate in profondità della crosta terrestre in zone asciutte. Se in Italia per ipotesi si ricavasse attraverso il nucleare l’elettricità che compriamo all’estero, prodotta dalla stessa fonte, la quantità di scorie generate in un anno potrebbero essere contenute in una ventina di cilindri di acciaio da sistemarsi in “un sito sicuro” che era stato individuato dagli esperti nella zona di Scanzano Jonico a 700 metri di profondità. A questo punto però scatterebbe il cosiddetto effetto “Nimby” (acronimo di Not in my backyard, cioè “Non nel mio giardino”). Nessuno vuole nelle proprie vicinanze, oltre alle centrali e ai reattori, i depositi di scorie radioattive, come nessuno gradisce termovalorizzatori, discariche a cielo aperto o qualsiasi altra struttura che possa allarmare la popolazione locale. Le persone più esposte a rischi sono i bambini, anche per una dimostrata correlazione tra la radiosensibilità e i processi di riproduzione cellulare. “Per decenni – afferma Ernesto Burgio, pediatra, presidente del Comitato scientifico ISDE di Palermo – sono stati utilizzati modelli di valutazione del danno e quindi del rischio basati essenzialmente sull’idea che i danni da radiazioni ionizzanti potessero essere distinti in deterministici (da esposizione massiva: quindi da incidenti o bombe) e stocastici (da dosi minori, ma sempre significative, in grado di danneggiare il Dna, producendo ipotetiche rotture di un singolo filamento, almeno in parte riparabili, o del duplice filamento, non riparabili e quindi generanti mutazioni). Su queste basi è stato rivisto il modello LNT e si continua in generale a valutare il rischio. Negli ultimi 15-20 anni, come si sa, la biologia molecolare ha fatto passi da gigante e si è compreso che tanto in vitro che in vivo l’esposizione a radiazioni ionizzanti produce effetti molto diversi. In estrema sintesi le cellule interessate non sono tanto o soltanto quelle direttamente colpite, ma quelle dell’intero tessuto/organo/organismo interessato”. I danni al Dna (in specie quelli più gravi) vengono riparati e le cellule più danneggiate eliminate, ma si diffondono sostanze clastogene che interessano l’intero tessuto e nel medio lungo termine l’intero organismo (bystander effect). Se l’esposizione è massiva ma non duratura, il tutto può anche risolversi, ma se si ha un’esposizione continua nel tempo (a quantità anche molto minori) il discorso cambia radicalmente. In particolare è l’esposizione continua per via interna a piccole quantità di radioisotopi come lo Stronzio-90 o il Cesio-137 introdotti per via alimentare e fissati in vari tessuti (tessuto osseo e denti il primo; tessuto muscolare, cardiaco, sistema nervoso il secondo) a determinare i danni e i rischi maggiori. E questo non soltanto in seguito a incidenti (ad esempio per decenni dopo Chernobyl e non solo in Bielorussia o in Ucraina ma in tutt’Europa), ma anche nelle popolazioni esposte a piccole dosi quotidiane (ad esempio nei dintorni delle centrali si trovano piccole quantità di cesio e di trizio negli alimenti, ed anche nei denti dei bambini, traslocazioni e altre aberrazioni cromosomiche sia in bambini malati che sani). Tutto questo è spiegabile (soltanto) alla luce della moderna epigenetica: l’esposizione a piccole quantità di xenobiotici o radiazioni ionizzanti e persino non-ionizzanti (esposizioni potenzialmente sinergiche) di cellule poco differenziate e quindi caratterizzate da un epigenoma (per così dire il software del Dna) ancora fluido (cellule staminali del midollo, gameti, cellule embrio-fetali nel corso dell’ontogenesi) causa la loro progressiva “sprogrammazione”. A differenza delle mutazioni tradizionali (stocastiche, in genere irreversibili) queste epimutazioni sono frequenti, dinamiche, reattive, reversibili ma cumulabili (almeno in parte addirittura da una generazione all’altra, per cui si parla di trasmissione ed amplificazione transgenerazionale del danno). Su questa base stanno cambiando i modelli di cancerogenesi e più in generale di patogenesi. È appunto l’esposizione per via interna (alimentare ma soprattutto transplacentare e, almeno in parte, transgenerazionale) alle piccole quantità a rappresentare il vero problema. E i danni di quest’esposizione sono destinati a manifestarsi dopo anni, dopo decenni o addirittura nelle generazioni successive a quella direttamente esposta. Ignazia Zanzi


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