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Leadership della donna: ci sono ancora troppi soffitti di cristallo

 |  Redazione Sconfini

Il difficile connubio fra le esigenze di cura della casa e l’attività lavorativa rappresenta ancora oggi una delle determinanti della scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro, come pure la persistenza dei cosiddetti “soffitti di cristallo” o barriere invisibili, condizionamenti che emergono, più che nelle percentuali, nella qualità dell’inserimento lavorativo. Anche se aumenta il numero di donne dei quadri intermedi e superiori, resta comunque asimmetrico l’accesso alla dirigenza.

 

La realtà del ruolo della donna nel tessuto sociale, la crescita e lo sviluppo nelle aziende della leadership femminile sono stati gli argomenti posti al centro di un recente convegno organizzato dal Gruppo Donne Manager di Manageritalia Trieste (costituito nel 2005 su iniziativa di alcune associate dirigenti), che ha analizzato il percorso svolto dalle donne nell’ultimo secolo dal punto di vista giuridico, storico e socio culturale, e realizzato un confronto fra ruoli femminili e maschili delle alte professionalità aziendali.

 

Claudio Pasini, presidente di Manageritalia, ricordando che in Italia appena il 14% di associati sono donne (nell’industria sono il 6%) mentre in Europa il 20%, dà una sua versione del leader, inteso come chi “interpreta in modo autorevole e carismatico gli obiettivi del team di collaboratori con capacità personali quali motivazione, grinta, impegno, competenza, conoscenza, affidabilità e credibilità: tutte qualità che valgono anche per le donne”. “In più – aggiunge – assume importanza, per raggiungere certi livelli, l’appartenenza politica e il sistema delle relazioni familiari e sociali”. Giovanni Nistri, presidente di Manageritalia Trieste sottolinea poi come “i ruoli manageriali ricoperti dalle colleghe nelle aziende dei vari settori contribuiscono a dare una visione della realtà economica più completa”.

 

“Donne non si nasce, si diventa”, diceva Simone de Beauvoir negli anni ’60. “Leader si nasce… e non si diventa”, afferma Worren Bennis, uno dei maggiori studiosi nel campo della leadership d’oltreoceano, che indica come fattore determinante, predisponente e innato, quella “esperienza cruciale” che ha segnato il carattere, non facilmente definibile ma riassumibile nei punti essenziali quali: capacità d’adattamento, motivazione, fermezza di carattere e di principi, integrità.

 

Queste due affermazioni, lontane nei concetti e nei contesti culturali, appaiono come il paradigma della difficoltà spesso insormontabile per la donna, nel suo divenire, ad emergere come leader. Ma chi è un leader? Perché nella dimensione femminile permangono ancora tante criticità nell’accesso, nella progressione di carriera, nell’assunzione di ruoli manageriali e di comando, nel riconoscimento del legittimo valore e capacità professionali e nel risultato economico raggiunto?

 

Le difficoltà di natura strutturale (rigidità del mercato del lavoro e carenza dei servizi) accentuano le disuguaglianze professionali che restano ben ancorate nelle pratiche di assunzione e nelle remunerazioni. La presenza femminile appare dunque come un risorsa svalorizzata e collegata al doppio ruolo, detealtrminandone una marginalità e una differenza sul piano retributivo, su quello normativo (dalla tutela alle pari opportunità) e di status. Numerosi studi evidenziano come per le donne si pone il problema della cittadinanza incompiuta in riferimento alla scarsa partecipazione politica e ai luoghi decisionali. Eppure dagli anni ’60 in poi la tutela legislativa e giuridica sembra sia adeguata dal punto di vista formale.

 

Perché tutto questo allora? “Perché le donne – afferma Flavia Dimora Morvay, presidente della Commissione Pari opportunità dell’Università di Trieste e docente di Diritto costituzionale – hanno poco potere politico e sociale, non sono dove si conta. Questa realtà di essere sottorappresentate turba la democrazia stessa, perché la democrazia è monca del potenziale femminile. Il vero problema sono i settori strategici dove intervenire: nel profilo sociale, culturale e politico con azioni comunitarie (diffusione di buone pratiche basate su informazione e comunicazione integrata) e mezzi amministrativi che devono concretizzarsi in programmi d’azione. Interventi non a pioggia ma mirati e concreti. Le cosiddette buone prassi, ovvero promuovendo percorsi formativi e conciliazione fra lavoro e tempi di vita. Le norme antidiscriminatorie sono buone ma servono azioni combinate fra interventi legislativi e programmi, che sono i mezzi per il cambiamento strutturale”.

 

Secondo Elisabetta Vezzosi, docente di Lettere e Filosofia all’Università di Trieste, “la questione della democrazia o meglio di “lesa democrazia o imperfetta” è direttamente connessa al fatto che le donne sono sottorappresentate nei “luoghi alti” della politica dove sono cooptate, mentre invece emergono spesso ai concorsi dove valgono le competenze”. “Le donne – aggiunge – con la loro presenza e trasponendo anche nell’attività lavorativa quelle qualità di genere che culturalmente o geneticamente le sono proprie, danno il senso del cambiamento e della modernizzazione sociale, sono più pronte alla concretezza e alla condivisione, si fanno interpreti di una leadership e di una gestione del potere con (da condividere) anziché su (da imporre). Democrazia e stile manageriale nuovo devono interagire per un cambiamento collettivo, consapevole e collaborativo. Le donne sanno fare rete e la leadership multipla deve essere l’essenza della nuova forma di condivisione”.

 

La ricerca storica, attraverso varie letture, ha cercato di comprendere e di evidenziare le origini di queste ambivalenze, nelle realtà occupazionali e sociali, individuandone alcune ragioni nella tradizionale concezione della famiglia e nella marcata separazione tra sfera pubblica e privata riconducibile al ruolo della donna. “Oggi – sostiene Teresa Tonchia, docente di Scienze politiche – è più giusto parlare non di ruolo delle donne ma di ruoli della donna, che appaiono trasformati e in divenire: mantenuti sì all’interno della famiglia (spesso stereotipati e imposti) ma anche con una dimensione pubblica vissuta spesso come “altra” rispetto a quella maschile, subendone l’omologazione e le molteplici discriminazioni. Oggi la sfida è quella di agire non come l’uomo ma coniugando la natura femminea, non negandola ma integrandola”.

 

“Nell’anno delle Pari opportunità fra individui – sottolinea Renata Brovedani, presidente della Commissione Pari opportunità della Regione FVG – è giusto riaffermare la necessità di riconoscere gli stereotipi e combatterli perché essi sopravvivono nel lavoro, nella scuola, nella politica. È perciò necessaria una condivisione delle responsabilità familiari, combattendo i modelli stereotipati proposti dall’età infantile, nell’orientamento scolastico, nell’accesso al lavoro e nella progressione di carriera. L’inclusione genera inclusione. Bisogna rispondere alla richiesta di azioni positive e le donne stesse devono prendersi la responsabilità di azioni politiche in questo senso, tutelando gli interessi delle donne non solo i diritti”.

 

Con la legge 53/2000, meglio nota come legge sui congedi parentali, sono state introdotte alcune importanti innovazioni come la flessibilità nella distribuzione temporale dei cinque mesi di congedo per maternità obbligatorio e di quello opzionale, il riequilibrio delle responsabilità di cura fra i genitori, l’eliminazione delle limitazioni alle assenze per malattia del bambino fino a tre anni, l’introduzione di altri tipi di congedo per ragioni familiari, la possibilità di congedi non pagati per motivi di studio, gli incentivi economici per le aziende che attuano politiche di conciliazione, la responsabilità per gli enti locali del coordinamento dei “tempi delle città”.

 

Nonostante ciò, alcuni studi dei rapporti fra famiglia e lavoro femminile, nonché testimonianze stesse di donne manager intervenute al convegno, dicono che poco si può far riferimento alle reti di protezione (asili nido, flessibilità, telelavoro, part time) come invece accade in altri Paesi: in Italia questi supporti sono legati molto spesso alle risorse della famiglia parentale, allargata, d’appartenenza. L’effetto facilitatorio al lavoro per le donne (più scontato per l’uomo) è dato, in momenti particolari del ciclo della vita, soprattutto dalle risorse familiari: la solidarietà, la collaborazione e la condivisione del proprio partner, l’aiuto intergenerazionale, sono spesso pronti a sostituire nel welfare familiare quei servizi di sostegno pubblici mancanti.

Ignazia Zanzi

 


In collaborazione con Help!

 

 


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