Skip to main content

Verso la libertà, di Arthur Schnitzler

 |  Redazione Sconfini

È un romanzo che non ha avuto grande fortuna in Italia, malgrado il suo autore sia da noi abbastanza conosciuto e amato. Peraltro la figura di Arthur Schnitlzer è stata, di recente, al centro di un discreto revival: complice anche lo Stanley Kubrick del quasi postumo Eyes Wide Shut, film di successo tratto da quel Doppio sogno che è una delle più celebri novelle dello scrittore viennese. Per l’importanza rivestita all’interno della sua opera e per l’intrinseco valore, desta perplessità che Verso la libertà (1908) compaia nel catalogo del pur raffinato editore SE e non sia stato proposto invece dall’Adelphi, la casa che ha avuto il merito negli ultimi anni di ripresentare in Italia i lavori maggiori di Schnitzler. C’è da sperare che all’Adelphi non abbiano fatto capolino scrupoli commerciali, legati alla cospicua mole del romanzo; si sarebbe trattato di un errore di valutazione assai sciocco. Verso la libertà, infatti, oltre a essere un’opera d’arte che, come tale, andrebbe lasciata estranea a ogni basso ragionamento di mercato, è soprattutto un libro ancora in grado di attirare l’attenzione della contemporaneità.

 

Sarebbe superfluo che mi soffermassi, ora, sulle qualità stilistiche di uno scrittore già universalmente apprezzato per la formidabile fluidità dei dialoghi – da far scuola anche oggi – e noto alla critica per aver introdotto la tecnica del monologo interiore nella letteratura tedesca. Mi limiterei pertanto a segnalare, di sfuggita, l’ambigua, direi oscura freschezza che traspare dalla prosa di Schnitzler. Mi riferisco a quel suo caratteristico giocare in superficie, fra i gesti e le parole dei suoi personaggi, subito infranto da immersioni feroci negli anditi più bui dei loro cuori; a quel suo instancabile bipartire ragione e psiche, amore e sesso, gli occhi aperti della vita cosciente di contro agli occhi chiusi del sogno – che sono poi gli aspetti della sua arte che hanno avvinto e sorpreso, ben prima di Kubrick, il fondatore della psicanalisi Sigmund Freud. Si sa come quest’ultimo restasse colpito da certe intuizioni apparentemente spontanee di Schnitzler, coincidenti a volte con risultati costati anni di ricerca alla scienza. E questa tensione dialettica in Verso la libertà la vediamo in azione non solo e non tanto in chiave interiore, nell’animo e nella mente dei personaggi – come accade esemplarmente altrove, dal già citato Doppio sogno a Fuga nelle tenebre, o anche nel Ritorno di Casanova. Essa si produce piuttosto nella relazione fra il protagonista Georg von Wergenthin e l’ambiente in cui egli vive, come cornice nella quale si dà il rapporto fra individuo e società. In questo senso, si può dire che l’elemento dialettico costituisca qui come non mai l’architettura dell’opera, in quanto ne sottende continuamente il respiro mettendone al contempo in evidenza lo speciale spessore.

 

Verso la libertà è prima di tutto l’affresco di un’epoca, che riesce a essere grandioso e penetrante perché contrappone i gArthur Schniztlerrandi problemi del suo tempo all’essenziale incapacità del protagonista, non dirò di fare qualcosa per risolverli, ma persino di capire quanto sarebbe urgente e necessario farlo. Nel modo irresponsabilmente blasé, proprio al conte Georg, di affacciarsi ai complicati nodi della società absburgica della belle époque (ciò che egli non può evitare, essendone circondato e attanagliato come tutti) si riassume lo scacco di un mondo che sente inutilizzabili i soli valori che potrebberlo sviarlo dalla catastrofe, alla quale esso si sta avvicinando inesorabilmente. E la catastrofe, di lì a poco, sarebbe arrivata nelle forme apocalittiche della Grande guerra; quanto ai valori in dissoluzione, erano quelli della borghesia liberale ottocentesca, ormai incapace di far fronte alle contraddizioni di un sistema che pure era il prodotto della sua azione politica ed economica; e della crisi di quei valori – che Schnitzler registra in presa diretta in Verso la libertà – conserviamo l’immagine che ci è stata consegnata a posteriori dai capolavori di Musil, Hoffmanshtal, Roth o Schmitz-Svevo. Tutte fotografie, per dir così, scattate non per caso all’interno della realtà austroungarica, in quell’Impero che sintetizzava la civiltà europea del primo Novecento nei pieni come nei vuoti, nei suoi momenti di vertice e decadenza, di salute e malattia, e che pertanto incarnava, come diceva Musil, una sorta di enorme sismografo della modernità. La Kakania in fondo – prima che Musil coniasse il termine, già lo annotava Scipio Slataper – era questo regno del decoro ormai al confine con l’assurdo, questa rispettabilità poggiata sull’ipocrisia, questa grottesca miscela di inflessibilità verso ogni misera questione e di tolleranza nei confronti dei più alti princìpi. «Incredibile?... No, austriaco», commenta caustico un personaggio di Verso la libertà, «da noi lo sdegno è falso tanto quanto l’entusiasmo. Soltanto la malignità e l’odio verso l’ingegno, quelli sono sinceri». In Austria, si dice in un’altra pagina del romanzo, «come in nessun altro luogo regnava la lotta più accanita senza traccia di odio, e una specie di affettuoso amore senza bisogno di fedeltà» (p. 272).

 

Il progresso civile e sociale europeo stava in un certo senso fagocitando se stesso, e il fenomeno era visibile in Austria-Ungheria forse meglio che altrove perché lì lo stridore fra antico e nuovo si faceva acutissimo. Come conciliare l’isitututo medievale di una monarchia sovranazionale con l’allora modernissimo ideale di nazione? E il socialismo con le istituzioni liberal-democratiche? e il rispetto dei diritti umani col razzismo e l’antisemitismo? e la scienza con l’etica e la religione? Sono pure le domande che percorrono questo romanzo, tramite l’azione di una folla di personaggi che Schnitzler riesce a orchestrare magistralmente: un reticolato di passioni, esperienze, illusioni, valori confliggenti, che ha l’ambizione, non tradita, di restituire uno spaccato quanto più dinamico di tutto un mondo in sfacelo.

 

Georg assiste allo spettacolo e non vi partecipa; non gli manca la sensibilità né l’intelligenza per cogliere quell’atmosfera «satura d’ingiustizia, di stoltezza e insincerità» in virtù della quale «relazioni disinteressate non possono esistere ed evolversi tra le persone, sia pure disinteressate» (p. 95). Avverte il tormento di alcuni suoi amici ebrei colpiti dagli schizzi d’odio del montante antisemitismo, il vero, immenso problema dell’epoca cui Schnitzler dedica passi straordinari per acume, intensità e preveggenza (Arthur Schniztler«ma quando saranno riaccesi i roghi…», p. 89). Li osserva reagire in modi diversi, ora con ostentata indifferenza e rassegnata accettazione, ora con l’adesione più o meno fanatica al piano sionista di evacuazione in Palestina, già allora considerata soluzione tutt’altro che ipotetica («…quando si legge ciò che succede nel mondo, si è tentati di credere che non ci sia per noi altra salvezza», p. 57). E li ascolta, specie per bocca dello sventurato scrittore Heinrich Bermann, formulare fosche riflessioni sul destino e sull’indole ebraici («…un ebreo non ha mai vero rispetto di un altro ebreo», p. 119). Georg osserva, ascolta e comprende; ma ogni volta alza le spalle e si allontana andando incontro a quella che lui ritiene la libertà, ma che invece non è che un continuo procrastinare le responsabilità della vita. Non è fredda indifferenza, la sua, quantomeno non in dose preponderante; è più che altro un’invincibile impotenza, una paralizzante impotenza a trovare la spinta per agire e a capire contro chi e cosa agire. Georg, attualissimo antieroe, non ha più le coordinate per distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è, in fin dei conti non riesce più a riconoscere il bene dal male perché è coinvolto fino al collo nel collasso morale del suo tempo. In tutto questo, è normale e fin inevitabile che egli dilapidi la storia d’amore della sua vita con la bella e coscienziosa Anna Rosner, inseguendo miraggi di realizzazione artistica – lui eterna promessa della musica – e fatue tresche di un istante. In definitiva Schnitzler ritrae un’Europa prossima a «precipitare dalla torre» (p. 298), incapace di sottrarsi, come Heinrich Bermann e gli altri personaggi coinvolti nella trama del suo libro, a un destino di tragedia. Quando abdica alla propria autonomia morale – è una delle lezioni che sembra emergere da Verso la libertà – l’individuo si abbandona alle forze superiori della storia e del fato.

 

Nel corpo del continente, non solo nella Vienna capitale dell’Impero absburgico, erano allora in fase di avanzata maturazione i morbi più paurosi del Novecento. Berthold Stauber, un medico socialista ed ebreo, afferma a un certo punto del romanzo: «quando si vuole aiutare un’intera classe bisogna essere duri con l’individuo, all’occasione, quando lo richieda il bene di tutti. Basta pensare […] che la più onesta e coerente igiene sociale dovrebbe mirare a distruggere l’individuo malato, o quanto meno a isolarlo, a escluderlo dal mondo […] non nego nemmeno di avere, in questo campo, certe idee che sulle prime potrebbero sembrare crudeli. Ma idee che hanno, secondo me, un futuro» (p. 255). Parole che mettono i brividi, nel loro coniugare così vistosamente lo spettro della dottrina comunista sull’onnipotenza della collettività rispetto al singolo, insieme con la mostruosa follia che sarà dell’eugenetica nazista. Verso la libertà, ricco di tutti i preziosi talenti dello Schnitzler narratore e fine indagatore della psicologia umana, è composto anche di tali stupefacenti intuizioni storico-politiche. «Questo romanzo si porrà nella grande tradizione dei romanzi tedeschi: Wilhelm Meister di Goethe, Enrico il verde di Keller, I Buddenbrook di T. Mann, Le dee di H. Mann», recita il Diario dell’autore alla data del 6 gennaio 1906, ed è un giudizio sul quale non si può che convenire.

 

«Sta’ tranquilla, tesoro, sta’ tranquilla» disse. «Ci sono io vicino a te, e ci sarò sempre». Georg credette di indovinare i pensieri di Anna: Non puoi dire niente di meglio?... di più significativo? Una parola che mi tolga ogni ansia, per sempre? E come se temesse di affrontare un pericolo, domandò insincero: «A che pensi?». E poiché lei taceva ostinatamente ripeté:

«A che pensi, Anna?» (p. 102).

 

Patrick Karlsen

 

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

Arthur Schnitzler (1862-1931), Verso la libertà, SE, Milano 2002 (ed. or. Der Weg ins Freie, 1908). Traduzione di Liliana Scalero. Postfazione di Giuseppe Farese.

 

 

 

 

 

 

 


Altri contenuti in Recensioni libri

La bora in testa, di Roberto Curci

Conversazione con Roberto Curci sulla nevrotica protagonista del suo recente romanzo: Trieste La bora in testa, romanzo uscito nel marzo 2005 per i tipi della MGS Press, fotografa Trieste in tre m...

James Joyce. Gli anni di Bloom di John McCourt

James aveva ventidue anni, l’età di Stephen in Dedalus, quando vi arrivò; ne aveva trentotto, l’età di Bloom in Ulysses, quando per sempre l’abbandonò. Fu una stagione fondamentale, per la sua form...

Intervista a Pino Roveredo: "la scrittura è come una pelle"

Vincitore nel 2005 del Premio Campiello con il libro di racconti “Mandami a dire”, Pino Roveredo è nato a Trieste nel 1954 da una coppia di genitori sordomuti che vivevano di stenti nella Trieste d...

Il romanzo di Trieste, di Manlio Cecovini

Conoscere la storia per capire Trieste e le origini della sua intima inclinazione autonomista. "Il romanzo di Trieste. Storia di un autonomismo" (Bastogi Editrice Italiana), l’ultima fatica lettera...

Apocalypse now redux, di J. Milus e F.F. Coppola; Dispacci di M. Herr

Esistono storie che hanno la valenza dell’archetipo, le cui strutture di fondo percorrono le arti di ogni tempo (e forse di ogni luogo), variando infinite volte negli aspetti esteriori eppure resta...