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Il tenore della porta accanto

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La valigia di un artista è sempre pronta. Pronta a seguirlo ovunque: da un continente all’altro, da una città all’altra, da un teatro all’altro. Compagna di viaggio discreta e silenziosa, ma carica di sogni, passione, emozioni. Così come la valigia di Andrea Binetti, tenore triestino che ha calcato le assi di palcoscenici quali “La Fenice” di Venezia, “L’Arena” di Verona e “L’Opera” di Parigi, personaggio fra i più amati dalla gente di Trieste.

Forse un po’ meno da chi nella nostra città lo ha clamorosamente escluso dall’ultima edizione del Festival dell’Operetta. Una ferita ancora aperta nel cuore di un artista sensibile, che al di là dell’innato talento deve la sua popolarità al carattere genuino, al suo essere prima di tutto una persona semplice, umile e spontanea. Un antidivo per natura, con un lungo curriculum alle spalle a dispetto della giovane età, che non si è mai prestato alle logiche perverse di uno star system infarcito di apparenza, superficialità e cattivo gusto.
Le qualità canore e attoriali di Binetti lo hanno portato spesso a lavorare lontano da Trieste, al fianco dei massimi esponenti internazionali della lirica e del teatro, fra cui Placido Domingo, Katia Ricciarelli, Andrea Bocelli, Ernesto Calindri, Gino Bramieri, Elio Pandolfi, Daniela Mazzuccato e Sandro Massimini. Già, soprattutto accanto all’indimenticabile Massimini, perché proprio da un incontro fortuito con «l’amatissimo Sandro» prese il via nel 1987 l’entusiasmante avventura di Andrea Binetti nel mondo dello spettacolo. “Ricordo con grande emozione e affetto quel momento – racconta commosso il tenore triestino – perché fu come sognare ad occhi aperti. Ero ancora studente e su invito dell’instancabile Fulvia Costantinides partecipai a un concerto, al Circolo della Ras, dedicato all’operetta. Con me c’era Antonella Costantini, bravissima pianista a cui sono molto legato e con la quale sto realizzando un progetto didattico a livello nazionale per avvicinare i bambini alla piccola lirica. E proprio in quell’occasione, a sorpresa, mi trovai davanti Sandro Massimini, presente in sala come ospite d’onore. Fu amore a prima vista, tanto che mi chiese subito di entrare a far parte della sua compagnia teatrale per la messa in scena del “Paese dei Campanelli”. Ero alle soglie dell’esame di maturità, ma credo di avergli detto di sì prima che finisse la domanda…».
Fermiamoci un attimo a Massimini: ci racconta un aneddoto curioso che lo riguarda?
“Massimini è stato il faro della mia vita, l’uomo a cui mi sono sempre ispirato per classe, eleganza e buon gusto. Lui e Daniela Mazzuccato, la “grande coppia” dell’operetta, rappresentano per me due straordinari modelli umani e artistici di riferimento. Fra i tanti ricordi che ho di Sandro ce n’è uno davvero simpatico. Era il primo anno che mi trovavo a Roma ed ero ancora ospite a casa sua in via Panisperna. Una sera mi svegliò all’improvviso, chiedendomi di accompagnarlo a fare un giro in macchina. Aveva delle bellissime automobili, tra cui un’incredibile Fiat 500 color chicco di caffè. Passammo tutta la notte a scorrazzare per le strade della capitale, fermandoci poi a casa di Marcello Mastroianni. Un’esperienza fantastica per un ragazzino come me, che proseguì anche il giorno dopo quando Mastroianni ricambiò la visita a Sandro, venendo a cena con Nanda Primavera e Silvana Pampanini. Personaggi straordinari di un mondo meraviglioso che oggi purtroppo non esiste più”.
Da dove nasce il suo amore per la musica e per il canto?
“La musica è stata sempre una parte importante della mia vita, qualcosa che mi scorre letteralmente nel sangue. In famiglia si faceva molta musica, tanto che una zia di mia madre era cantante lirica e lavorò anche con Maria Callas nella “Traviata”. Fin da bambino ho amato la magia del teatro e giocare al teatro. Passavo giornate intere a inventare scenografie e storie su un palcoscenico immaginario fatto con le scatole delle scarpe di mia mamma”.
Veniamo a oggi: cosa ha provato a far parte del cast del “Rigoletto a Mantova”?
“È stata un’esperienza meravigliosa. Il programma è stato trasmesso in mondovisione in 148 Paesi. Molti hanno criticato il progetto dal punto di vista musicale, in particolare il fatto che Placido Domingo cantasse da baritono e non da tenore. Le obiezioni possono essere anche legittime, ma in un panorama di “veline”, “Grandi Fratelli” e di “Isole dei Famosi”, aver avuto il coraggio di produrre a distanza di dieci anni un evento artistico così importante e di qualità, lo considero un fatto positivo. Il mondo dello spettacolo, soprattutto in televisione, è molto cambiato e decisamente in peggio. È il mondo della superficialità, dell’immagine, della volgarità e della poca sostanza. “Rigoletto a Mantova” rimarrà sempre nel mio cuore come un’esperienza fantastica e unica sotto l’aspetto professionale ma anche umano. Non potrò infatti mai dimenticare la grande umanità dei grandi: Placido Domingo, Ruggero Raimondi, il maestro Zubin Metha. Tutti straordinariamente umili, semplici, cordiali. Un esempio per i giovani, perché la cosa che oggi manca di più al mondo è l’umiltà”.
E della partecipazione alla rassegna “Il Castello con le stelle” a San Giusto?
“Un onore e una felicità immensa. È stata una sorta di rivalsa, mi dispiace dirlo, dopo che il Festival dell’Operetta di Trieste mi aveva “lasciato a casa”. Purtroppo quando si è fuori da certi giri e certe lobby, si è fuori da tutto. Io sono un artista, un’anima libera e sono fiero di essere svincolato da questi meccanismi. Mi hanno fatto enorme piacere le lettere di protesta della gente che chiedeva come mai non c’ero, perché da lì ho avuto la conferma, dopo 24 anni di fatica e sacrifici, dell’amore che il pubblico triestino ha per me. E che io nutro per lui. Tutta la faccenda mi ha provocato grande dolore e ancora oggi non mi va giù. Pertanto essere tornato a cantare a Trieste, nella splendida cornice del castello di San Giusto, davanti a una folla entusiasta che alla fine ci ha trattenuto con quattro bis (perché in questa città l’operetta piace sebbene qualcuno vorrebbe farla morire, dimenticando la nostra storia e le nostre tradizioni), è stata per me un’immensa soddisfazione. Una serata bella e vincente vissuta a fianco di Alexandra Reinprecht, travolgente prima donna della Staatsoper di Vienna, del maestro Romolo Gessi e della Filarmonia Veneta”.
Ma allora è davvero così difficile fare l’artista a Trieste e in Italia?
“Non è difficile se si è una persona disposta a tutto e si tengono in tasca tessere d’ogni tipo. Lo diventa quando invece si è onesti. Diciamo che il nostro Paese sta vivendo un’involuzione, che lo sta facendo scivolare verso il basso: vieni chiamato se sei appariscente, disponibile e sai fare poco. Se al contrario hai una marcia in più, hai voglia di fare e non pensi alla politica o ai sindacati ma solo a lavorare con amore e passione, a quel punto disturbi”.
Ha mai pensato di lasciare la nostra città e andarsene altrove, magari all’estero?
“Viaggio da molti anni in tutto il mondo, ma lasciare Trieste per me sarebbe impossibile. Sono legato da un cordone ombelicale a questa città, che al contempo amo e detesto. Nel senso che spesso mi fa soffrire e forse mi ha dato meno di quello che avrei potuto avere. Ma qui ho due grandi forze vitali: la mia famiglia e il pubblico, che mi vogliono un bene dell’anima e io adoro alla follia. Ripeto sempre che è solo grazie a loro se continuo a fare con passione questo mestiere”.
Qual è stato finora il momento più emozionante della sua carriera?
“Non vorrei essere banale, ma il debutto a teatro è un ricordo che mi dà ancora i brividi. Quando ho sentito le prime note d’orchestra del “Paese dei Campanelli” e girandomi ho visto accanto a me in scena i grandi Sandro Massimini, Gino Bramieri e Gualtiero Rispoli, ho provato un’emozione indescrivibile. E poi non potrò mai dimenticare il recente “Rigoletto a Mantova” e l’esperienza televisiva con Paolo Limiti nel programma “Ci vediamo in TV” di Raiuno: mi sentivo davvero il cuore in gola”.
Quale genere di musica ascolta nel tempo libero?
“Adoro la canzone d’autore, in particolare quella di Edith Piaff. Credo di aver consumato i suoi dischi. E poi anche il jazz. Mi capita spesso di andare a New York, al Lincoln Center, in occasione delle più importanti serate jazzistiche”.
C’è un libro che ha amato più di altri e tiene sul comodino?
“Direi “Il tormento e l’estasi” di Irving Stone, biografia romanzata sulla vita di Michelangelo. È un volumone di oltre 800 pagine che mi accompagnò per un’intera estate mentre ero in scena all’Arena di Verona. Amo l’arte, in particolare quella del Rinascimento, e il libro di Stone – scritto molto bene – mi trascinò nell’atmosfera meravigliosa di quel periodo”.
C’è un regista con cui avrebbe voluto lavorare?
“In assoluto con Luchino Visconti, persona di grande fascino, di quelle che adesso non si trovano più. Oggi stimo molto Pupi Avati, un regista intelligente, semplice ed essenziale, che non ha niente da spartire con quel cinema imbottito di effetti speciali, computer e 3D. Capisco che il mondo è ormai questo, ma ci sarebbe bisogno di fermarsi un attimo e fare un po’ marcia indietro, per tornare alle origini e riscoprire i valori più veri. Anche nel cinema e nello spettacolo, utilizzando tecniche meno virtuali e più realistiche”.
Parliamo in conclusione di progetti futuri: con i Solisti Cantori sarà tra pochi giorni a Liegi assieme all’Orchestra della Rai di Torino…
“Il concerto si terrà nei primi giorni di dicembre e sarà dedicato alla musica napoletana, dal Barocco ai nostri giorni. Affrontare la grande tradizione musicale partenopea – in particolare la lingua napoletana, davvero difficilissima – è stata una sfida enorme, ma stimolante. Tutto dicembre sarà per me un mese particolarmente intenso: andrò in scena a Milano con le repliche della “Principessa della Czarda” e non mancheranno alcuni appuntamenti pure a Trieste, prima e dopo Natale. Sempre in vista del prossimo anno quando debutterò come regista di “Al Cavallino Bianco” e “La danza delle libellule” al Teatro San Babila di Milano. Infine c’è in cantiere un nuovo progetto televisivo, ma è ancora presto per parlarne”.
Claudio Bisiani


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